martedì 19 dicembre 2017

Calendimaggio



Buongiorno!
Ho perso un po' il filo, mentre le commissioni per Natale si accavallano, ma questa era la fiaba di ieri.

Calendimaggio

Era un tempo, quello, in cui le persone avevano dimenticato da un pezzo le vecchie tradizioni, isolandosi sempre di più nelle proprie case. Così, quando un gruppo di coraggiosi decise di riprendere a celebrare la festa di Calendimaggio, le fate del bosco rizzarono immediatamente le orecchie.

Era proprio ora di fare qualcosa di diverso.

Il grande ontano del paese fu ornato di nastri colorati e altri furono lasciati pendere dai rami, in modo che le giovani coppie potessero, danzando, intrecciarli.
Furono preparati i giochi tradizionali e  bicchieri, piatti e cesti di fiori furono disposti su grandi tavole all’ombra del maggiociondolo, i cui fiori gialli erano già una promessa.

Mentre la primavera esplodeva con i suoi fiori profumati, le fate si preparavano a fare la loro parte, come da tradizione.
Per Isabella, la più giovane del gruppo, quella era la prima occasione di vedere da vicino gli umani.
Travestita come le altre da fanciulla e con un cestino pieno di fiori di stagione al braccio, iniziò a bussare alle porte delle case, cantando insieme alle altre fate antiche canzoni beneauguranti e ricevendo in cambio dolcetti, vino, qualche torta salata o pietanza da portare al banchetto in piazza, a cui erano tutti invitati.
Isabella, in particolare, era così bella, rosea e gentile che nessuno le diceva di no e tutti accettarono volentieri di partecipare alla festa.

Nel pomeriggio, tutte le case erano ornate di fiori e le grandi tavole sotto il maggiociondolo si erano riempite di succulente vivande.
C’era tutto il paese, in piazza. I ricchi e i poveri, i giovani e i vecchi. C’erano musica, buone bevande, buon cibo e l’aria dolce della primavera.
Le fate aprirono le danze intorno all’ontano con un aggraziato girotondo e poi, quando la festa raggiunse il culmine, si allontanarono silenziose.

Liberate finalmente le ali, tornarono in volo nella case vuote, lasciando in ognuna doni invisibili. Isabella non era abituata alle sofferenze degli uomini e chiedeva continuamente il permesso di fare di più, di lasciare altri doni.
“Non possiamo,” la redarguiva dolcemente la decana delle fate. “Non ci è concesso esaudire tutti i loro desideri. Possiamo dar loro ciò di  cui hanno bisogno, nulla di più e nulla di meno. I cuori degli uomini desiderano tante cose e, come ti accorgerai, appena ne hanno una ne vogliono subito un’altra.”
Le fate si muovevano veloci lasciando qui, dove viveva una persona troppo triste, un po’ di allegria,  
là, dove c’erano pene d’amore, un po’ di comprensione. In alcune abitazioni lasciarono solo un po’ di buonsenso, in altre che ne avevano proprio bisogno qualche magia per la prosperità o la salute.
Dopo aver benedetto ogni casa del paese, nascoste nuovamente le ali, le fate tornarono alla festa e danzarono insieme ai paesani fino alle prime luci dell’alba.
Tornando nel bosco, erano tutte un po’ stanche, ma alla decana, che era sempre attenta, non poteva sfuggire nulla.
“Che cosa hai combinato, Isabella?” chiese infine vedendo che la giovane fata continuava a sorridere tra sé come se custodisse un segreto.
“Non ho combinato proprio nulla,” si difese Isabella con il più soave dei sorrisi. “Solo, ho deciso di lasciare qualche briciola di un dono tutto mio.”
 “Ovvero?”
“Il sospetto che noi esistiamo davvero” ammise candidamente Isabella.

La decana voltò il viso, per non fa vedere che stava sorridendo anche lei. Quella giovane fata le avrebbe dato del filo da torcere, questo era sicuro. 

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