Buongiorno!
Ho perso un po' il filo, mentre le commissioni per Natale si accavallano, ma questa era la fiaba di ieri.
Calendimaggio
Era
un tempo, quello, in cui le persone avevano dimenticato da un pezzo le vecchie
tradizioni, isolandosi sempre di più nelle proprie case. Così, quando un gruppo
di coraggiosi decise di riprendere a celebrare la festa di Calendimaggio, le
fate del bosco rizzarono immediatamente le orecchie.
Era
proprio ora di fare qualcosa di diverso.
Il
grande ontano del paese fu ornato di nastri colorati e altri furono lasciati
pendere dai rami, in modo che le giovani coppie potessero, danzando,
intrecciarli.
Furono
preparati i giochi tradizionali e bicchieri,
piatti e cesti di fiori furono disposti su grandi tavole all’ombra del
maggiociondolo, i cui fiori gialli erano già una promessa.
Mentre
la primavera esplodeva con i suoi fiori profumati, le fate si preparavano a
fare la loro parte, come da tradizione.
Per
Isabella, la più giovane del gruppo, quella era la prima occasione di vedere da
vicino gli umani.
Travestita
come le altre da fanciulla e con un cestino pieno di fiori di stagione al
braccio, iniziò a bussare alle porte delle case, cantando insieme alle altre
fate antiche canzoni beneauguranti e ricevendo in cambio dolcetti, vino,
qualche torta salata o pietanza da portare al banchetto in piazza, a cui erano
tutti invitati.
Isabella,
in particolare, era così bella, rosea e gentile che nessuno le diceva di no e
tutti accettarono volentieri di partecipare alla festa.
Nel
pomeriggio, tutte le case erano ornate di fiori e le grandi tavole sotto il
maggiociondolo si erano riempite di succulente vivande.
C’era
tutto il paese, in piazza. I ricchi e i poveri, i giovani e i vecchi. C’erano
musica, buone bevande, buon cibo e l’aria dolce della primavera.
Le
fate aprirono le danze intorno all’ontano con un aggraziato girotondo e poi,
quando la festa raggiunse il culmine, si allontanarono silenziose.
Liberate
finalmente le ali, tornarono in volo nella case vuote, lasciando in ognuna doni
invisibili. Isabella non era abituata alle sofferenze degli uomini e chiedeva
continuamente il permesso di fare di più, di lasciare altri doni.
“Non
possiamo,” la redarguiva dolcemente la decana delle fate. “Non ci è concesso
esaudire tutti i loro desideri. Possiamo dar loro ciò di cui hanno bisogno, nulla di più e nulla di
meno. I cuori degli uomini desiderano tante cose e, come ti accorgerai, appena
ne hanno una ne vogliono subito un’altra.”
Le
fate si muovevano veloci lasciando qui, dove viveva una persona troppo triste,
un po’ di allegria,
là,
dove c’erano pene d’amore, un po’ di comprensione. In alcune abitazioni
lasciarono solo un po’ di buonsenso, in altre che ne avevano proprio bisogno
qualche magia per la prosperità o la salute.
Dopo
aver benedetto ogni casa del paese, nascoste nuovamente le ali, le fate tornarono
alla festa e danzarono insieme ai paesani fino alle prime luci dell’alba.
Tornando
nel bosco, erano tutte un po’ stanche, ma alla decana, che era sempre attenta,
non poteva sfuggire nulla.
“Che
cosa hai combinato, Isabella?” chiese infine vedendo che la giovane fata continuava
a sorridere tra sé come se custodisse un segreto.
“Non
ho combinato proprio nulla,” si difese Isabella con il più soave dei sorrisi.
“Solo, ho deciso di lasciare qualche briciola di un dono tutto mio.”
“Ovvero?”
“Il
sospetto che noi esistiamo davvero” ammise candidamente Isabella.
La
decana voltò il viso, per non fa vedere che stava sorridendo anche lei. Quella
giovane fata le avrebbe dato del filo da torcere, questo era sicuro.
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