lunedì 12 settembre 2016

Oro vivo




Oro vivo

Era iniziato tutto così, una notte,  quando un’enorme lastra di roccia si era staccata di colpo dalla cima della montagna ed era precipitata a valle, trascinando con sé quintali di pietre e massi.
L’impatto era stato così violento da rompere una parete di roccia, facendo entrare per la prima volta un raggio di luce nella pancia della montagna.

Una pepita d’oro, incastonata da sempre nella roccia, si era stupita di quel raggio di luna e ancor di più di quel pezzettino di cielo pieno di stelle.
Poi, quando il sole del mattino l’aveva investita in pieno, era saltata giù, si era stiracchiata e si era guardata intorno piena di meraviglia, imitata ben presto da tante altre pepite d’oro grandi e piccole, intente  ad assaporare per la prima volta la luce, il calore e lo stupore di essere vive.
Quando il sole, nella sua corsa nel cielo, aveva iniziato a inclinare i suoi raggi, ritirandoli verso l’apertura, l’oro vivo ne aveva seguito goloso il percorso, ritrovandosi all'aperto.

“Ah!” sospirò Pepita sentendo per la prima volta sotto di sé il fresco umido e profumato dell’erba e del muschio.
Ma quel sole d’oro continuava a spostarsi e le pepite vive ne seguivano deliziate la luce, mandando bagliori felici che lì, in cima alle montagne, nessuno vedeva.

No. Non proprio nessuno.
Un Uomo Avido che stava perlustrando i monti notò quel luccichio e, posati il piccone e il setaccio che aveva in spalla, decise di sfruttare l’ultima ora di luce prima del tramonto per andare a vedere.
Dopotutto, era un cercatore d’oro. Nientemeno.

La luce del sole stava andando a nascondersi dietro le cime quando l’Uomo Avido sbucò all'improvviso proprio là dove l’oro vivo si stava crogiolando senza un pensiero al mondo.

Pepita non aveva mai visto un essere così pieno di buio e ne ebbe paura.
“Scappaaa!” urlò d’istinto senza rivolgersi a nessuno in particolare e, un po’ rotolando e un po’ rimbalzando, si lasciò scendere lungo il fianco della montagna fino a quando si arrestò con un tonfo dentro al torrente.  Le altre pepite l’avevano seguita e, trovando piacevole il mormorio dell’acqua fresca intorno a loro, decisero di rimanere lì, a farsi cullare, mentre il sole si spegneva e si accendevano di nuovo la luna e le stelle.
Dell’essere buio non c’era più nessuna traccia e l’oro incorruttibile non temeva il contatto dell’acqua.

Ma alle prime luci dell’alba l’Uomo Avido era già sulle sponde del torrente, imprecando contro il cielo coperto di nuvole che rendeva più difficile la sua ricerca.
Le pepite d’oro vivo si aggrapparono sul fondo del torrente e rimasero lì, zitte zitte, cercando di non farsi notare.
Fu il sole traditore, a rivelarle. Un raggio dispettoso riuscì a bucare le nuvole e finì dritto dritto sul quel tratto di torrente, facendo luccicare le pepite come fari nella notte.
“Scappaaa!” strillò Pepita mentre il cercatore d’oro si avvicinava a grandi passi. Si abbandonarono alla corrente, ma l’uomo buio fu più veloce di loro e le imprigionò tra le maglie arrugginite del suo setaccio. Le raccolse, le chiuse in sacco di pelle ben legato e, dopo un tempo che parve infinito, le scaraventò dentro una cassaforte.  Era un posto buio e soffocante, senza nemmeno la freschezza e i suoni gentili dello sgocciolio d’acqua che le confortavano quando erano nella montagna.

Le pepite diventarono molto tristi.
Così, quando l’Uomo Avido le prese e le rovesciò sul tavolo per valutarle, pesarle e bearsi della propria ricchezza, Pepita non esitò a lanciare ancora una volta il grido “Scappaaa!” aggiungendo subito dopo “Sparpagliamoci!”
Le pepite d’oro vivo si tuffarono giù dal tavolo e iniziarono a rotolare i tutte le direzioni, chi trovando scampo nella fessura sotto la porta, chi imboccando la finestra, chi tra le crepe delle assi del pavimento. Ben presto si trovarono tutte fuori, continuando a rotolare tra i prati, sui sentieri, tra le radici degli alberi.

Pepita si ritrovò tutta sola, ma continuò ad avanzare, anche se era stanca, per allontanarsi il più possibile da quell'uomo pieno di buio.
Nel suo lungo vagare, imparò a conoscere gli esseri umani, le loro preoccupazioni, i loro affanni e quella luce che ogni tanto trovava la strada del cuore e li rendeva belli.
E poi un giorno, chissà come, si ritrovò nei pressi di un monastero. Mani gentili la raccolsero e la portarono con deferenza in un laboratorio.

Questa volta Pepita non ebbe voglia di scappare.
Si piegò dolcemente all'azione del ferro e del fuoco, fino ad assumere la forma di uno stupendo fiore di loto.
Il fiore d’oro fu rispettosamente adagiato ai piedi di una statua dello stesso metallo, che raffigurava una divinità portatrice di luce, speranza e compassione.
Lì, cullata dalle preghiere sommesse e dalla luce delle candele votive, Pepita veniva spesso sfiorata da mani che non osavano toccare direttamente la divinità, ma supplicavano per un aiuto di cui avevano bisogno.

Con il tempo, Pepita comprese che, proprio come la fiamma di una singola candela poteva accenderne altre mille senza per estinguersi o affievolirsi, lo stesso poteva fare lei con la sua luce incorruttibile di oro vivo. Poteva regalare un raggio di speranza e comprensione a ogni persona in preghiera. Alcuni lo lasciavano morire, quel raggio di luce, e dovevano tornare spesso, ma altri erano così bravi da riuscire a conservare la luce nel cuore e a farla crescere nel tempo, tanto che Pepita, quando tornavano a pregare, non avrebbe più saputo dire se fosse lei a donare luce a loro o se fossero loro a illuminare lei.

Ma non aveva importanza, perché il buio, anche se per gradi, stava arretrando. 


Buonanotte. Buone fiabe. 


domenica 11 settembre 2016

Come Thoreau

"Sono andato nei boschi perché volevo vivere consapevolmente, affrontare solo i fatti essenziali della vita, vedere se potessi imparare ciò che dovevo insegnare e non dover scoprire, al momento della morte, di non aver vissuto."

Thoreau (Da Walden - Vita nei boschi)









Lo so. È stato un lungo silenzio.
So che in senso generale è sbagliato. Ho letto anch'io tutti i manuali e le istruzioni per  i social e i blog e le raccomandazioni ripetute all'infinito di pubblicare regolarmente.

Ma io avevo bisogno di fermarmi per  tanti ottimi motivi.

Il primo: dovevo capire dove voglio andare.
Per tutta la vita ho cercato di fare la “cosa giusta”: compiacere i genitori, gli insegnanti e dopo i datori di lavoro, il marito, la suocera, cercando di fare del mio meglio per mio figlio. Anche se poi me lo sono dovuta crescere da sola. Volevo essere una brava persona. Io, figlia di una casalinga, volevo riuscire a tenere insieme tutti i pezzi tra lavoro, casa, affetti e chissà che altro.  
Ve lo devo dire: nel mio caso non ha funzionato. L’unica cosa che sono riuscita a ottenere sono state perdite pesanti e, soprattutto, l’aver perso me stessa per strada.
Perché in questo infinito mare di regole insulse, in questo cercare di adeguarsi agli innumerevoli “si fa così” stabiliti da chissà chi e per quale motivo, io ero diventata niente di più di una maschera. Magari accettabile, ma vuota.
Se qualche mese fa mi aveste chiesto chi ero e che cosa volevo davvero, vi avrei risposto con una sfilza di luoghi comuni alla prima domanda e non avrei saputo rispondere alla seconda.
Non lo sapevo più, che cosa volevo davvero.
Ero in caduta libera, come Alice nella tana del Bianconiglio, e potevo solo sperare che prima o poi la caduta sarebbe finita, preferibilmente su un mucchio di foglie per non farmi troppo male.

Questa crisi ci vuole, almeno una volta nella vita. Dopo che i figli sono diventati grandi, gli amori perduti e ogni dannata parte della società si è servita a dovere di un pezzettino di noi, prendersi il tempo per ricostruirsi e per decidere una buona volta in che direzione andare seguendo solo la bussola del cuore è un nostro sacrosanto diritto. 
Come Thoreau, volevo scoprire che cosa è essenziale per non dovermi accorgere, al momento della morte, di non aver vissuto.
La scritta che vedete nella foto è sistemata vicino al lago Walden, tra i boschi degli Stati Uniti, dove visse da solo per diversi anni.

Il secondo motivo: dovevo ritrovare la mia voce.
Per circa 20 anni l’ho prestata agli editori, collaborando con periodici o facendo traduzioni. Dietro di me c’è sempre stato un editore, un direttore o un caporedattore a dirmi quali argomenti, delle miriadi di proposte che facevo, potevo trattare e in che modo. C’è sempre stato uno stile editoriale ben preciso a cui adeguarsi, su cui costruire frasi e periodi. E una lunghezza stabilita per farci stare quello che avevo da dire.
Intendiamoci, adoro l’editoria. È il mio pane. È stata quella che mi ha permesso di essere un genitore single e lavorare senza avere l’impressione di “abbandonare” mio figlio in mani mercenarie, anche se a prezzo di tanto stress, tanta ansia per le scadenze e nessuna sicurezza. .
Ma dopo tutti questi anni non sapevo più nemmeno da che parte iniziare per recuperare la mia vera voce. Quella degli esordi, quella piena di entusiasmo e di sogni e di speranze.
Tiziano Terzani lo racconta molto bene, questo malessere che a volte prende i giornalisti da lunga data nel suo libro “Un indovino mi disse”, spiegando che alla fine si ha l’impressione di usare sempre le stesse parole “consumate”.

Gli altri motivi (e ce ne sono) ve li risparmio.

Adesso sono qui. Atterrata e anche un po’ ammaccata.
Sarà il tempo a dire se la mia lunga caduta mi ha portato nella grotta di Aladino o solo in uno stralunato Paese delle Meraviglie.

Ma a tutti voi che siete rimasti con pazienza ad aspettare, grazie. Grazie di cuore. 






venerdì 15 gennaio 2016

La casetta nera

Finalmente una nuova fiaba per il fine settimana.

Ringrazio il blog The rooms of my life per la gentile concessione della splendida immagine che me l'ha ispirata.




La casetta nera

C’era una volta un ridente villaggio arrampicato su una dolce collina, pieno di graziose casette di tutti i colori che si pavoneggiavano nelle belle giornate primaverili.

“Guardate come sono bella!” diceva una casetta gialla che scintillava nella luce del sole attirando tutti gli sguardi.
“E io, allora?” interveniva una casetta azzurra: ”Persino il cielo mi ha rubato il colore!”

Quello che è certo è che quelle casette, tutte insieme, erano proprio belle e i visitatori se le indicavano l’un l’altro senza stancarsi mai di guardarle.

Solo una casetta se ne stava sempre zitta, in disparte. Il suo esterno era nero come la pece e, anche se le stanze al suo interno erano chiare e ariose, nessuno aveva mai voluto abitarci.

Arrivò l’estate e tutti i balconi e i davanzali si coprirono di fiori che rendevano le costruzioni ancora più allegre e attraenti. Rossi gerani attiravano gli sguardi e petunie di tutti i colori tracimavano dai vasi come cascate di arcobaleno. Ma naturalmente nessuno mise fiori alle finestre della scura casetta disabitata.

Quando venne anche l’autunno e i grandi alberi iniziarono a perdere le foglie, le case gialle, ocra e rosse si stagliarono orgogliose contro l’orizzonte richiamando i colori delle foglie, come dipinte direttamente dalla mano di Dio per ornare il paesaggio, ma ancora una volta la casetta nera sembrava fuori luogo, quasi estranea a quel borgo così felice.

Infine giunse anche l’inverno, che con la sua fredda luce e la foschia rese tutto indistinto e un po’ triste, mentre la neve ricopriva ogni cosa.
E poi ci fu il giorno della grande tormenta. La neve vorticava nell’aria mentre uno straniero sperduto cercava faticosamente di orientarsi in tutto quel bianco.
Era stanco, affamato e gli bruciavano gli occhi per lo sforzo di scrutare tra i fiocchi candidi che sembravano ricoprire ogni cosa.
Portava con sé un prezioso fagotto, coperto con cura per evitare che il freddo ne danneggiasse il contenuto.
Quando ormai iniziava a perdere ogni speranza di trovare un riparo, ecco svettare da lontano una macchia scura come la pece.
Lo straniero ne fece il suo faro, e seguendo quella macchia scura riuscì finalmente a trovare riparo nel villaggio.

Si stupì molto, quando scoprì che quella casetta dai muri neri che lo aveva salvato era vuota e subito chiese di andarci ad abitare.
Una volta acceso un bel fuoco scoppiettante nel camino, svolse con cura il suo fagotto.
Conteneva un prezioso tulipano nero, forzato a fiorire d’inverno e rarissimo.
La casetta nera provò un brivido di piacere nell’essere finalmente abitata e capì immediatamente di avere trovato una persona che andava a puntino per lee, come lei per lui.

Da allora la casetta splende di vita in ogni stagione, con rarissimi tulipani e iris neri che ne ornano i davanzali nella bella stagione e stupende stelle di neve che la ornano durante l’inverno mentre sul balcone, in una piccola serra, altri rari fiori neri si preparano per la prossima primavera.


    




mercoledì 13 gennaio 2016

Certe volte....

Certe volte vorrei essere davvero una strega cattiva e trasformare qualcuno in ranocchio....

Peccato che non si può. 

Ecco che cosa è successo con l'esperimento della fiaba collettiva sulla pagina FB. 

Ho proposto un inizio:

"Occhidambra tirò un calcio alla polvere della strada, chiedendosi ancora una volta come fosse possibile che la siccità proseguisse ancora.
 Non pioveva da mesi...." 

e in tanti si sono prestati a proseguire, aggiungendo frasi per far proseguire la storia, che stava diventando così:

"Occhidambra tirò un calcio alla polvere della strada, chiedendosi ancora una volta come fosse possibile che la siccità proseguisse ancora.
 Non pioveva da mesi e quelli che prima erano lussureggianti pascoli dipinti da mille colori ora apparivano come spettrali paesaggi lunari. Gli alberi avevano ormai perduto tutte le loro foglie e ripiegati su loro stessi sembrava aspettassero solo che il gelido vento del nord li spezzasse definitivamente.
Aveva percorso più volte quel sentiero che serpeggiava tra campi e si inoltrava in fitte boscaglie , spesso sentiva il rumore del vento che scuoteva rami foglie....quasi pareva parlassero tra loro, ora quei rami orfani di foglie si rivestono di strane figure, figure alate che volteggiano, si rincorrono e si posano quasi a fare da ornamento a rami desiderosi di compagnia.
Tornare indietro non si poteva ed andare avanti poneva molte domande.  Il Gufo Solitario lo guardò dritto negli occhi quasi a rassicurare Occhidambra...."La strada è lunga e difficile ma la Regina della Pioggia ti aiuterà....corri piccolo amico della Terra, occorre il tuo aiuto."
Così il ragazzo si armò di coraggio e determinazione e con i soli abiti che teneva indosso, partì alla volta dell'ignoto. Nel cuore custodiva le parole d'amore e sprone della mamma, nell'anima portava il dolore e la speranza dei suoi compaesani, che da molto ormai soffrivano la fame e fiduciosi avrebbero atteso il suo ritorno.
Il Gufo Solitario lo guardò allontanarsi, mentre il buio della notte copriva ogni cosa. “Avrà bisogno del mio aiuto,” pensò. “I suoi occhi non sono abituati all’oscurità come i miei.” Così, spalancate le ali, si apprestò a seguirlo.
Ignara di tutto, la Regina della Pioggia…"


... e a questo punto il post è sparito. O meglio, io lo vedevo, ma gli altri no. 
Mistero misterioso, non è vero?

Adesso ho rilanciato. Speriamo che funzioni. I contributi sono i benvenuti.