domenica 29 giugno 2014

La rosa e la porta magica



La rosa e la porta magica


C’era, tanto tempo fa, un giovane pastore che ogni giorno portava le sue pecore al pascolo.
Lo accompagnava sempre un grande cane di nome Corsaro.
Un giorno, mentre il pastore riposava sotto un albero di noce e le pecore brucavano tranquille, Corsaro iniziò a latrare forte. Il ragazzo non aveva visto tracce di lupi e non riusciva a capire perché il cane abbaiasse tanto.
Si stava guardando intorno perplesso quando vide una noce cadere dall’albero. Immediatamente si spaccò in due e ne uscì una fanciulla bellissima,  che sparì velocemente in fondo al prato.
Il giovane pastore rimase interdetto, poi non ci pensò più, convincendosi di aver sognato.
Ma il giorno dopo ecco ripetersi tutto uguale.
Il terzo giorno, appena il cane iniziò a latrare il pastore balzò in piedi e non appena cadde la noce e ne uscì la fanciulla, il ragazzo si mise a inseguirla.
Correva come il vento, quella ragazza, fino a una casa costruita tra gli alberi. Due tronchi intricati fungevano da stipiti della porta, mentre altri alberi più sottili sorreggevano le finestre. A un tocco della mano della ragazza, la porta d’ingresso si spalancò, lasciandola passare. Poi si richiuse alle sue spalle con un tonfo.
Il pastore tentò in tutti i modi di aprire quella porta, bussò, chiamò, ma niente.
Fece il giro di quella strana casa, per vedere se ci fosse un altro ingresso, ma inutilmente.
A quel punto vide passare una vecchina, curva sotto il peso di una grande cesta piena di noci.
Il pastore, che aveva un cuore gentile, si offrì di portare quel carico per lei e mentre camminavano le chiese informazioni sulla strana casa e sui suoi abitanti.
La vecchia gli lanciò un’occhiata penetrante. “Ti dirò quello che ti serve quando saremo a casa mia,” gli disse.
Cammina cammina, arrivarono fino a una casupola che – guarda un po’ – sorgeva proprio all’ombra di un grande albero carico di noci.
Il giovane posò la cesta sulla soglia e poi chiese: “Mia buona vecchina, perché andare a cercare noci così lontano, quando crescono proprio così vicino alla vostra casa?”
“Perché il bello del viaggio è il viaggio,” rispose lei.
“E vorreste dirmi ora di quella casa di cui vi ho chiesto?”
“Chi vuole entrare in quella casa, che è stregata, deve essere accompagnato da un corsaro e portare tesori. Solo chi ha coraggio e l’animo limpido come un cristallo può attraversare quelle stanze. Non c’è altro modo.”
Poi la vecchia colse una rosa che cresceva vicino alla casa. Era una rosa stranissima, in cui il rosso e il bianco si mescolavano come in un gelato variegato. La porse al giovane, dicendogli: “Abbine cura e che la buona sorte sia con te.”
“Sono sempre stato fortunato,” rispose il giovane prendendo la rosa e, dopo aver ringraziato, tornò sui suoi passi. Giunto davanti alla porta, fischiò per chiamare il suo cane, che arrivò subito.
“Se ci vuole un Corsaro, io ce l’ho” pensò tra sé e sé il ragazzo. “E in quanto ai tesori, ne ho nel mio animo e spero che bastino.”
Si avvicinò dunque alla porta e a quel punto la rosa che teneva in mano disse “Abracadabra!”
La porta si aprì. Il ragazzo la oltrepassò e quella si chiuse con un tonfo alle sue spalle, lasciandolo immerso nella più completa oscurità. Il ragazzo avanzò tentoni in quella che sembrava una sala immensa. A un tratto una voce fortissima lo fece sobbalzare: “Perché sei venuto fin qui?”
“Perché il bello del viaggio è il viaggio,” rispose lui, ricordando le parole della vecchina.
A quel punto la rosa che aveva in pugno disse ancora “Abracadabra!” e iniziò a emettere una piccola luce, sufficiente per vedere il corridoio che si apriva sulla sinistra del salone.
Il pastore non esitò a imboccarlo e vide che il corridoio era ricoperto di specchi. Nel primo vide un lupo che stava sbranando tutte le sue pecore. Gli si strinse il cuore, ma decise di proseguire. Nello specchio successivo si vide povero, a chiedere l’elemosina. Nel terzo si vide in punto di morte.
“Questi specchi riflettono solo le mie paure” capì allora. “La vecchina mi ha detto che devo essere coraggioso”.
In fondo al corridoio c’era una stanza geometrica, sui cui si aprivano diverse porte, tutte chiuse.
“La vecchina mi ha detto che devo avere l’animo limpido, che cosa vorrà dire?”
A quel punto Corsaro, che era sempre stato al suo fianco, gli spinse la mano con il muso, e lui si mise ad accarezzarlo. L’affetto di quella bestiola lo rasserenò subito, togliendogli ogni preoccupazione. “Abracadabra!” disse a quel punto la rosa, e da viva e soffice che era si trasformò in una rosa di cristallo rosso e bianco.
All’improvviso la casa intorno a loro iniziò a mutare, le porte e le finestre si spalancarono, mentre la luce inondava quello che ora appariva come un meraviglioso castello. La fanciulla delle noci, splendidamente abbigliata, gli venne incontro.
“Ti ringrazio, giovane coraggioso, per avermi liberata dal triste incantesimo che mi teneva prigioniera. Sono la regina di questo regno e, se ti piacerà, farò di te il mio sposo.”
Il pastore accettò con gioia e le nozze furono celebrate immediatamente, tra grandi feste del popolo che via via usciva da gusci di noce.
E da allora vissero tutti per sempre felici e contenti.

 

mercoledì 25 giugno 2014

Perché dovremmo scrivere?


Perché dovremmo scrivere?

Non so se sono riuscita a convincervi a scrivere regolarmente, ma adesso sfodero i mezzi pesanti.
Brenda Ueland nel suo If you want to write non ci va leggera: “… perché dovremmo usare il nostro potere Creativo e scrivere, dipingere, suonare o qualsiasi cosa ci sentiamo spinti a fare? Perché non c’è nulla che renda le persone altrettanto generose, gioiose, vivaci, salde e piene di compassione, o altrettanto poco disposte agli scontri e all’accumulo di oggetti e denaro. Perché è il modo migliore per conoscere davvero la Verità e la Bellezza è provare a esprimerle. E qual è lo scopo dell’esistenza, se non cercare di scoprire qui o altrove verità e bellezza e poi esprimerle per condividerle con gli altri?”
Va bene, direte, voi. Se vai a cercare nei manuali di scrittura creativa, è chiaro che troverai istigazioni a scrivere…
Ok, allora prendo un libro che tratta di medicina. Questa volta è Christiane Northrup, medico e specialista in ostetricia e ginecologia.  Parlando delle tappe che portano alla guarigione, scrive questo: “Per anni ho esortato i miei pazienti a imboccare il cammino verso la guarigione esplorando il passato alla ricerca del come e del perché si era arrivati alla situazione presente.”
Secondo lei, il cammino verso la guarigione si articola in dodici tappe. Indovinate qual è la prima? Mettere la propria storia nero su bianco. Scriverla. Consiglia di tenere un diario, per registrare anche le proprie reazioni. La seconda tappa è: esaminare le proprie credenze. Scoprire che cosa si pensa e come quello che si pensa influenza la realtà e la relazione con il proprio corpo. In sostanza, rileggere quello che si è scritto per trovare informazioni. Lei stessa segnala: “E notate: è una terapia che non costa un centesimo.”
Il suo lavoro prosegue con il rispetto e l’elaborazione delle emozioni, il perdono, il lavoro sul corpo, la ricerca di aiuto e molto altro.
Passiamo a Christian Boiron? Questo imprenditore filosofo francese ha dedicato molto tempo e molte energie allo studio della felicità. Tra i suoi tanti consigli, guarda un po’, c’è anche scrivere. Sostiene che per essere felici bisogna anzitutto esprimere ciò che si pensa davvero, ciò di cui si è convinti nel proprio intimo. Il modo per farlo? Dedicare un quarto d’ora al giorno a scrivere ciò che si pensa sui temi che stanno più a cuore.
Duccio Demetrio, che ha scritto un libro sull’autobiografia come cura di sé, sostiene con convinzione i molti i benefici dello scrivere e del raccontarsi.
Potrei andare avanti a lungo, ma credo di aver reso l’idea.
C’è un detto che recita: “Si diventa grandi quando si capisce che dire un dolore lascia il tempo che trova.”
Dirlo sì. Scriverlo no.
In qualche modo la pagina scritta ci aiuta a rendere tutto più gestibile, più leggero. Può arrivare a suggerirci soluzioni e nuove prospettive anche sui problemi importanti.
A volte ci mette di fronte ad aspetti di noi poco lusinghieri, è vero, ma spesso ci mette anche in contatto con le parti più forti, sane, coraggiose e belle.
Qualunque sia il sogno che si coltiva, la scrittura può diventare lo slancio, il motore e il territorio di scoperta che ci serve per metterci in moto.
Allora, perché dovremmo scrivere? Perché ci può rendere più sani, perché ci può rendere più felici, perché rappresenta una sorta di cura, perché ci fornisce lo slancio per realizzare i nostri desideri, perché ci aiuta a conoscerci…
La prossima volta vedremo insieme come e perché la scrittura, già potente di per sé, viene amplificata quando si tratta di fiabe.
Per ora vi lascio scrivere in pace (perché state scrivendo, vero?)







sabato 21 giugno 2014

il libro incantato

Non avrete pensato che volessi lasciarvi senza una nuova fiaba proprio al solstizio d'estate?
Certo che no.

Il libro incantato
La vita delle fate a noi umani sembra immune dalla noia, ma per le fate molto giovani (fino a cento anni, più o meno) può non essere vero. Tra una festa e l’altra, tra un ballo e l’altro, a volte per le piccole fate i giorni sono lunghi da trascorrere, mentre le fate più grandi sono affaccendate nelle loro mansioni.
Così quel giorno Campanella e Mughetta, grandi amiche da sempre, si guardarono l’un l’altra con aria interrogativa. “A che cosa vuoi giocare?” chiese Mughetta. “Decidi tu,” rispose Campanella facendo ondeggiare le gambe penzoloni dall’albero su cui erano sedute. 
“Potremmo andare al fiume,” propose volenterosamente la prima.
“Ma ci siamo già andate ieri…” rispose controvoglia la seconda.
Sospirarono insieme, guardando l’orizzonte.
“E se andassimo a vedere che cosa fanno gli umani?” propose infine Campanella.
“Ma ce lo hanno vietato!” disse rianimandosi Mughetta.
“Proprio così,” rispose sorridendo l’amica.
“Che cosa aspettiamo?”
Un breve volo le separava dal limitare della foresta in cui vivevano. Oltre, si stendevano grandi prati e poi campi coltivati, fino a una fattoria isolata in cui viveva una famiglia di brave persone, piena di figli vocianti. Le fatine avanzarono con cautela tra la vegetazione, attente a non farsi vedere. I genitori erano al lavoro nei campi, come sempre. La figlia maggiore stava dando da mangiare alle galline e il figlio maggiore si stava occupando dei cavalli.
Un’altra figlia grandicella era affaccendata in cucina.
Una bambina si dondolava sull’altalena tenendo d’occhio l’ultimo nato, che giocava su una coperta stesa sull’erba. Gli altri due figli, un maschio e una femmina, erano seduti in disparte sotto una grande quercia.
Le due fatine si capirono con uno sguardo e si avvicinarono a questi ultimi.
La bambina teneva sulle ginocchia un libro consunto e leggeva. Leggeva storie bellissime che parlavano delle creature del bosco e delle fate.
Le piccole fate si avvicinarono abbastanza da sentirne la voce, sempre ben nascoste. Morivano dalla curiosità e avrebbero voluto guardare più da vicino le illustrazioni che ornavano quel libro, ma non erano così temerarie e si tennero e debita distanza.
La voce della bambina le trasportò in un’avventura piena di draghi e poi in un’altra piena di fate e in un’altra…
A un tratto una voce dalla cucina  chiamò a raccolta i bambini, che uno dopo l’altro rientrarono in casa per mangiare.
Il libro rimase sotto la quercia e le fatine si avvicinarono. Com’era bello!
Pieno di figure affascinanti. Campanella non riuscì a resistere. Lo prese e si sollevò in volo verso la foresta, seguita dalle proteste soffocate dell’amica.
Quando furono abbastanza lontane e al riparo degli alberi, sedettero e aprirono il libro.
Impossibile dire quanto tempo trascorsero a decifrare i caratteri della scrittura degli umani e a indicarsi a vicenda le splendide illustrazioni, ma a un tratto si accorsero che stava scendendo la notte.
Per un tacito accordo, resero le pagine luminose con un incantesimo e andarono avanti, voltando una pagina dopo l’altra.
Infine lo chiusero e si guardarono sospirando. “Che bello!” disse Mughetta con aria sognante. “Incantevole” rispose Campanella accarezzando la copertina. “Peccato doverlo restituire.”
“Però dobbiamo.”
“E se facessimo un patto con gli umani?”
“Che tipo di patto?”
“Se a loro non dispiace, ce lo potrebbero lasciare la sera sul davanzale della finestra, quando vanno a dormire. Così noi potremmo prenderlo e leggere qualche storia prima di restituirlo. Noi, in cambio, lasceremo l’incantesimo che consente di leggere al buio. Che cosa ne pensi?”
“Lo sai che ci è vietato farci vedere dagli umani.”
“Sì, ma possiamo scrivere un messaggio.”
L’amica ponderò la questione per un pezzo, prima di rispondere: “Mi sembra una grande idea.”
Presero una bella foglia e iniziarono a scrivere: “CARI UMANI, IL VOSTRO LIBRO E’ MOLTO BELLO…”
Così, il libro incantato per qualche tempo passò dalle mani dei bambini a quello delle fatine, comparendo e scomparendo dal davanzale della finestra.
I bambini erano deliziati da quel gioco e le fate avevano trovato un modo gradevole per trascorrere il tempo. Quando ebbero finito di leggere il libro, le fate per gratitudine aggiunsero un incantesimo a quello che illuminava le pagine: le storie presero a cambiare, diventando sempre diverse, e per magia chiunque aprisse quel libro trovava esattamente la storia di cui aveva bisogno in quel momento.
Dicono che quel libro sia ancora perduto, da qualche parte, malconcio e dimenticato, ad aspettare di incantare con la sua magia altri bambini e altre fate.
 
 Buon solstizio, buone fiabe!

 

giovedì 19 giugno 2014

Avete trovato il vostro quaderno?

Allora? Avete trovato il vostro quaderno?
La disciplina richiesta per scrivere su basi regolari, viene ampiamente ripagata. La fluidità della scrittura, per esempio. Se ripenso ai primi articoli che ho scritto per un giornale mi scappa da ridere. Era faticoso. Anche adesso lo è - a volte - ma l’abitudine mi consente di andare molto più spedita. Le Pagine del mattino sono per noi quello che gli esercizi sono per i ballerini. Non possono andare su un palco e danzare bene senza imporsi tutto quel lavoro “nascosto” che li tiene in esercizio. Lo stesso vale per noi. Le Pagine del mattino ci rendono più fluidi.
Così, se vi capita di voler partecipare a una Disfida in cui vi tocca scrivere una fiaba al giorno (e vi ho dimostrato che si può fare) invece di spaventarvi penserete che può essere un’esperienza interessante…
Ma non è solo per questo che cerco di convincervi a scrivere con regolarità.
La pagina bianca diventa il luogo in cui nutrire i nostri sogni, riposare, indignarci, progettare, concederci il lusso di dire quello che non potremmo dire a nessuno, gettare ogni maschera.
È l’unico luogo in cui possiamo ascoltare la nostra vera voce. Per questo è importante scriverle al mattino. Questo lo potete verificare da soli: provate a scrivere una pagina al mattino appena svegli  e una alla sera, dopo una giornata in mezzo agli impegni e alle persone.
Poi confrontatele. Sono diverse? Quale è quella che vi somiglia di più?
Di solito, appena svegli, il nostro censore interno è ancora poco attivo e mezzo addormentato, così noi abbiamo un po’ di libertà. Quando siamo appena usciti dal mondo dei sogni, è più facile che quello che proviamo davvero venga a galla.
Siccome queste pagine sono solo per noi, è un bene. Il nostro quaderno non si scandalizzerà, non ci giudicherà, non smetterà di lasciarci spazio. Fino a che avrà pagine.
E poi?
Poi le pagine vanno rilette, dopo qualche tempo. In genere si consiglia di lasciar passare almeno un paio di settimane, In questo caso va bene avere uno sguardo critico, ma anche tanta compassione.
Le prime riletture sono altrettante scoperte. È come mettersi davanti a uno specchio per la prima volta. “Ma davvero io sono così?”  vi capiterà di chiedervi.
È facile scoprire che ci sono punti su cui continuiamo a tornare, ma anche intuizioni su come superare le difficoltà o su come riacquistare una prospettiva più ampia. A volte, quando siamo immersi in una certa realtà, ci sembra che quella sia tutto il mondo. Le pagine ci ricordano che non è così. Magari il capufficio è davvero una carogna patentata, ma le nostre petunie quest’anno sono fiorite come non mai e la festa a cui siamo stati è stata davvero divertente e… la prospettiva cambia.
Magari continuiamo a lamentarci per il divano consumato e poi un giorno ci viene un’idea su come rinnovarlo senza comprarne uno nuovo. Oppure su come riorganizzare le spese per poterne comprare uno nuovo. Le soluzioni iniziano ad arrivare, a volte mascherate, a volte mentre riflettiamo su altre cose, ma rileggere ci aiuta a mettere tutto in ordine. Alcuni consigliano di tenere a portata di mano un evidenziatore, per segnare le intuizioni, le cose da approfondire, le scoperte.
In seguito, questi quaderni potete scegliere se tenerli con voi o no. Sta a voi decidere liberamente se conservarli o disfarvene. In ogni caso, avranno fatto molto per voi, come un buon amico.
Ancora una cosa: non abbiate paura di includere anche immagini che hanno un significato per voi. Anche queste vi aiuteranno a costruire la mappa che vi porterà al centro di voi stessi. Magari, scoprendo che riempite i vostri quaderni di ritagli di giornale che raffigurano fiori, vi verrà voglia di coltivarne alcuni “dal vero”, oppure scoprirete di avere da tempo un desiderio che  potete concedervi. 
Vi consiglio di fare un controllo settimanale, per vedere se siete riusciti a scrivere ogni giorno e che cambiamenti, anche piccoli, avete iniziato a portare nella vostra vita.
Vi prego, provate. Costa così poco…
Lao-Tzu, scriveva “Un viaggio di mille miglia inizia con un singolo passo.”
Spero che decidiate di fare questo singolo passo, intanto.
 



Quello che vi auguro di cuore di trovare percorrendo questo cammino è quasi tutto qui, in questa Benedizione Apache:

May the sun bring you new energy by day
May the moon softly restore you by night

May the rain wash away your worries

May the breeze blow new strength into your being

May you walk gently through the world

and know it's beauty all the days of your life

(Possa il sole donarvi nuova energia di giorno
Possa la luna ristorarvi dolcemente di notte
Possa la pioggia lavare via le vostre preoccupazioni
Possa la brezza instillare nuova forza nel vostro essere
Possiate camminare con gentilezza per questo mondo
e conoscere la sua bellezza in ogni giorno della vostra vita.)

sabato 14 giugno 2014

Le fate dei fiori

Una fiaba leggera leggera per un fine settimana quasi estivo...


Le fate dei fiori
C’era un caldo insopportabile, quel giorno.
Il giardino sembrava addormentato sotto il sole spietato di mezzogiorno e nemmeno le api, le farfalle e le coccinelle trovavano la forza di volare.
Nel punto più ombroso dell’orto, ben riparate sotto alcune foglie di lattuga particolarmente ampie, tre fate dei fiori si sventolavano con le gonne fatte di corolle.
“Io te l’avevo detto, Trapunzia, non dire che non te l’avevo detto!”
Trapunzia, lasciò andare per un attimo la gonna fatta di petali violetti e sbuffò: “Va bene, Petunia, avevi ragione tu. Non dovevamo far fiorire tutto così presto, quest’anno. Volevo solo portarmi avanti col lavoro…”
“E guarda,” aggiunse Petunia lisciandosi i petali azzurri “le petunie e i piselli odorosi sono già tutti avvizziti!”
“Sì, però i girasoli stanno bene,” cercò di mettere pace Gloriosa, tutta vestita di giallo.
“È inutile cercare di ragionare con lei,” disse Trapunzia alzandosi. “Quando si immusonisce, non c’è verso. Vorrà dire che faremo più fioriture, no?”
“Sì, più fioriture! E dove stai andando?”
“Ho caldo. Vado a rinfrescarmi nel laghetto.” Detto ciò, la fatina vestita di violetto iniziò a vorticare su se stessa fino a posarsi vicino a una placida ninfea. “Ah, che bellezza,” sospirò allargando i petali sull’acqua. “Come va?” chiese poi all’indirizzo della ninfea. Ma il grande fiore non aveva voglia di conversare, e si limitò a fare un lieve cenno d’assenso.
In quella arrivò vorticando anche Gloriosa. “Che bella idea hai avuto! Dài, Petunia, vieni anche tu!”
Petunia si fece un po’ pregare, ma alla fine anche lei allargò i suoi petali sull’acqua con un sospiro soddisfatto.
Un pesciolino rosso passò pigro tra le fate. “Salve, come va?” chiese subito Trapunzia, di ottimo umore. “Blob blob” disse il pesciolino rosso.
Trapunzia si immerse brevemente per parlargli a tu per tu e in breve altri due pesciolini rossi  arrivarono vicino alle fatine. Ognuno di loro aveva un lungo stelo dorato a mo’ di briglia e Trapunzia tutta felice saltò su un pesciolino e incitò le sue compagne. “Facciamo una gara! La ninfea sarà il traguardo. Vince la prima che fa il giro del laghetto e torna qui.” L’idea sembrava tanto divertente che nemmeno Petunia mosse obiezioni.
Le fate salirono sui pesciolini rossi e la ninfea dette il via. I pesciolini sfrecciarono nell’acqua del laghetto, mentre le fate ridevano deliziate. Vinse Gloriosa, che per premio ebbe il diritto di schizzare le altre due battendo i petali sulla superficie dell’acqua, ma quelle sembravano tanto contente che alla fine le pregò di schizzare anche lei.
Si stavano divertendo tanto che non si erano accorte che grossi nuvoloni scuri si stavano ammassando nel cielo. Se ne accorse Petunia, sollevando lo sguardo per osservare un’ape nervosa che passava di lì.
La chiamò le bisbigliò qualcosa e mentre quella riprendeva il volo si rivolse alle compagne: ”Venite con me, che vi offro la merenda.”
Spiccò quel volo vorticante e atterrò di nuovo nell’orto, sotto le fragole, mentre grossi goccioloni di pioggia iniziavano a cadere sul laghetto disegnando ampi cerchi sull’acqua.
Al riparo delle foglie, ogni fata ricevette una fragolina di bosco. In quel momento arrivò anche l’ape, portando su una foglia una goccia di miele per la merenda delle fate.
Ridendo e conversando, le tre fecero la loro merenda con fragoline di bosco e miele, mentre la pioggia ristorava finalmente i fiori accaldati.
Fu un breve temporale, e ben presto spuntò di nuovo il sole del pomeriggio. Nell’aria più fresca, le fatine si sistemarono su alcune ampie foglie in cui erano rimaste imprigionate gocce di pioggia che brillavano al sole come gemme preziose.
“Non trovate anche voi che l’estate è la stagione più bella?” disse Gloriosa guardandosi intorno. Le altre annuirono e poi Petunia propose di giocare a raccontarsi storie. “Io ne so una!” disse subito Trapunzia, prima di iniziare: “ C’era un caldo insopportabile, quel giorno.
Il giardino sembrava addormentato sotto il sole spietato di mezzogiorno e nemmeno le api, le farfalle e le coccinelle trovavano la forza di volare…”

mercoledì 11 giugno 2014

Scrivere Zen


Scrivere Zen

Scrivere Zen è stato uno dei primi libri che ho letto sulla scrittura come mezzo di evoluzione e guarigione e secondo me uno dei più belli.
C’erano moltissimi punti interessanti, ma uno dei principali era la necessità, se si vogliono raccogliere i frutti di questa pratica, di scrivere ogni giorno o almeno di darsi una regolarità, tipo un quaderno al mese. A un certo punto pare che l’autrice, Natalie Goldberg,obbedendo a questa regola sia stata colta da uno stato di amore per tutte le creature e ne abbia parlato al suo Maestro spirituale.
La risposta del Maestro: “Oh, è solo pigrizia. Rimettiti a scrivere.”
Quando vi ho parlato delle Pagine del mattino  mi sembrava quasi di sentirvi protestare. “Oh, andiamo! Perché dovrei alzarmi un quarto d’ora prima ogni mattino per scrivere tre pagine che poi non mostrerò a nessuno?”
Perché può salvarvi. Perché è un’ottima palestra. Perché così funziona.
Vi parlerò a lungo e diffusamente dei privilegi degli scrittori (e per scrittori intendo chiunque scriva, retribuito o meno, riconosciuto o meno), ma qui ve ne elenco almeno tre:
1- Gli scrittori hanno il privilegio di fare moltissimo con poco. Non vi servono grandi mezzi, molto denaro o chissà quali materiali. Quello che vi serve per scrivere si compra con pochi euro. Vi ho già detto che vi bastano un quaderno, il più normale possibile, con le pagine più sgombre possibile e grandi, per non far stare stretti i pensieri, e poi una biro, una matita o un qualunque strumento scrivente. In “Un uomo” Oriana Fallaci racconta di quest’uomo rinchiuso in una cella di isolamento, senza niente, che si salva scrivendo poesie sul muro con una scheggia di legno intrisa nel proprio sangue. Quasi niente può impedirvi di scrivere. Le altre arti hanno bisogno di strumenti particolari, la nostra no. Questa abitudine a fare moltissimo con poco vi serve anche per scrivere meglio, qualunque cosa scriviate, e per vivere meglio, perché sviluppa l'abitudine a operare bene anche in scarsità di risorse. Ne riparleremo.
2- Gli scrittori hanno il privilegio di lavorare al di fuori dalle proiezioni. In ogni contatto con i nostri simili, noi senza volere proiettiamo una quantità di emozioni che sono nostre e subiamo una quantità di proiezioni degli altri. Alcune persone le troviamo “antipatiche” o trovano “antipatici” noi. C’è la paura delle critiche, l’invidia e una quantità di emozioni che passano da noi agli altri e dagli altri a noi. Quello che ne risulta è quasi sempre una percezione della realtà e di noi stessi catturata attraverso lo specchio deformante di queste emozioni. Con la pagina bianca questo non può succedere. La pagina è un luogo neutro: non ci critica, non si aspetta nulla da noi, non ci mette fretta.  Se prendete l’abitudine di scrivere le Pagine del mattino solo per voi stessi, potete stare certi che su quelle pagine ci sarete solo voi. Nessuna proiezione, se non le vostre. Ma è già una possibilità di lavorare “in purezza”. Al di fuori del gioco delle proiezioni, avete la possibilità di vedervi davvero come siete, senza interferenze esterne. E di conseguenza, di modificare gli aspetti che a voi non piacciono. Questo è uno strumento potentissimo, ma ci torneremo.
3- Gli scrittori hanno il privilegio di fare un lavoro che li forma. Proprio per quanto detto al punto due, la scrittura diventa un mezzo per darci forma. Se sulle pagine ci accorgiamo di un’abitudine fastidiosa (come quella di lamentarci senza fare niente) a un certo punto ci verrà voglia di cambiarla. Abbiate fede. Funziona. È da una vita che ripeto che dalla scrittura non si torna mai a mani vuote. Ve lo ripeterò ancora, ma voi credetemi. Spesso, altri lavori ci richiedono di essere questo o quest’altro, allontanandoci  da quello che siamo realmente, dalla forma che è nostra. La scrittura, invece, ci consente di avvicinarci sempre di più alla nostra vera forma. Già dalle prime settimane di pratica, si scopre con stupore che iniziamo a somigliarci di più, a somigliare di più a quello che siamo davvero. Questa dose di verità, specie in questo mondo e in questo momento, è già un balsamo in grado di sanare molte ferite.



Vi chiedo, per piacere, di tenere un quaderno pronto vicino al comodino per le vostre Pagine del mattino di domani.

Per oggi mi fermo qui, ma proseguiremo con tantissimi aspetti della scrittura e della lettura, scoprendo insieme come funzionano, come utilizzarli e quanto possono fare per noi.
Per ora buone fiabe, buonanotte.

martedì 10 giugno 2014

Non ce ne andiamo!



"Il mondo non ha bisogno di più persone di successo. Il mondo ha un disperato bisogno di più costruttori di pace, guaritori, restauratori, cantastorie e persone appassionate di ogni genere."

Dalai Lama











Non ce ne andiamo!


Complice questa immagine che mi ha inviato la Bottega delle favole, complice il pubblico che è stato meraviglioso e ci ha chiesto di continuare, complice la cantafiabe Federica Rossi, che come me si è affezionata a questi nostri appuntamenti fatti di fiabe, alla fine abbiamo deciso di restare.
Continuo a pensare, come vi scrivevo all’inizio, che le fiabe possano offrire fantasia, ristoro, evasione, consolazione e molto di più.
Rallentiamo il ritmo, però. Sarà una fiaba alla settimana, per augurarvi un dolce fine settimana e per dare la possibilità a chi vuole di chiedere una fiaba su un tema particolare che gli sta a cuore.
Dopo le pensiline degli autobus, siamo  pronte a tutto!

Inoltre, non smetterò di incoraggiarvi a scrivere e a leggere. Se non volete scrivere fiabe pazienza, ma almeno leggerle fa bene, scrivere fa bene. Ne sono più che convinta. Ne sono più che mai convinta.
Dopo questa disfida che ha visto alti e bassi, impicci e attimi di scoraggiamento, ma da cui sono uscita trasformata in molti aspetti (non mi è riuscito di diventare alta e bionda, però…) non penso proprio che vi lascerò macerare in un qualsiasi dolore senza almeno tentare di offrirvi uno strumento valido per uscirne.
Questa è una promessa.









"E quando avrai troppa pena, troppo dolore, e se non ne vorrai parlare con nessuno, scrivi. Ti aiuterà."
(Agota Kristof)


E finalmente (ah, come mi mancava!) ancora una volta a tutti voi buone fiabe, buonanotte!



domenica 8 giugno 2014

Federica Rossi, vincitrice della Disfida!

Siamo al traguardo, ma è successo un disastro.
Con l'aggiornamento della pagina Facebook, moltissimi post che erano in evidenza sulla pagina sono letteralmente scomparsi!

Ai punti, vince indiscutibilmente Federica Rossi, vincitrice della Disfida!

Le fiabe più votate, La fanciulla dei fiori di pesco di Federica e, a sorpresa,  La pensilina del bus 53.

Se gli accordi proseguono come stabilito in partenza, molto presto queste fiabe diventeranno libri e audiolibri, ma vi terrò aggiornati.

E' stato un mese impegnativo sotto molti punti di vista. Un attimo di meritato relax e poi darò tutti gli aggiornamenti del caso.

A presto!

 


giovedì 5 giugno 2014

I lettori di fiabe

Questa è l'ultima fiaba della Disfida, dedicata a tutti voi che ci avete seguito fin qui.
Sono un po' triste, ma è stato davvero un mese pieno di scoperte, d'incanto e di fiabe.
Vi aggiornerò sul quello che ho scoperto e imparato da questa esperienza. 
 Adesso, avete ancora qualche giorno per votare le fiabe preferite con un "Mi piace" sulla pagina Facebook La Disfida delle Fiabe. 
Domenica sera si procederà alla conta e lunedì si decreterà la fiaba vincitrice.
Ancora una volta, buone fiabe, buonanotte.


I lettori di fiabe

C’era una volta un regno infelice, il regno Allincontrario, in cui a ogni persona veniva imposto di essere ciò che non era. Chi era pigro doveva darsi da fare, a chi era pieno di energia veniva imposto di stare tranquillo. Chi amava il lavoro fisico all’aria aperta doveva fare lavori sedentari al chiuso, a chi invece amava starsene seduto in pace veniva imposta un’intensa attività fisica e viaggi frequenti.
Nel paese di Allincontrario attività come sognare a occhi aperti, essere generosi e disinteressati, fare le cose per il puro piacere di farle erano severamente vietate. Erano vietate anche le attività ricreative come ascoltare musica, danzare, dipingere, leggere per diletto.
Non c’erano giardini, a Allincontrario, ma solo orti per coltivare quello che serviva.
Gli abitanti di quel paese, in lotta continua contro la propria natura, non erano molto felici. Anzi, non lo erano affatto. Ma poiché tutto quello che poteva rendere forte lo spirito era scomparso da quel paese molte generazioni prima, la popolazione viveva in uno stato di rassegnazione.
La frase più comune tra quella gente era “Siamo nati per soffrire…” e quello, almeno, lo facevano bene.
Tutti pensavano che tutto sarebbe per sempre rimasto così, ma quando si arriva a un estremo di qualcosa, l’estremo opposto inizia a crescere da chissà dove.
Così, un giorno, un abitante di quel paese era in viaggio sul suo carretto e stava tornando a casa dopo essere andato a ritirare certe merci in un paese vicino. Addolorato, così si chiamava quell’uomo, era naturalmente uno di quelli a cui non piaceva viaggiare e non vedeva l’ora di arrivare in paese, scaricare le merci e potersi finalmente riscaldare vicino al fuoco. Come sempre, quando viaggiava era di pessimo umore e non si fermava mai a conversare con nessuno, preso solo dalla fretta di finire presto e di tornarsene a casa.
Ma quel giorno a mezza via lo colse una fortissima tempesta. Addolorato era bagnato fradicio e accecato dalla pioggia, così di non si accorse del giovane che si parò in mezzo alla strada e gli andò addosso col mulo prima di accorgersi di lui.
Il giovane giaceva nel mezzo della strada.
Addolorato scese dal carretto e iniziò a dargli dei buffetti sul volto, per vedere se era vivo.  
Quando infine il giovane riaprì gli occhi, Addolorato tirò un sospiro di sollievo e stava per risalire sul carretto quando quello lo trattenne per una manica. “Vi prego, signore, questo è già il secondo animale che mi viene addosso, in mezzo a questa tempesta. Siate buono, datemi un passaggio sul vostro carretto fino al paese più vicino.”
Addolorato ancora tentennava, allora quello gli mostrò una borsa piena di monete: “Vi pagherò.”
Addolorato gli fece cenno con la testa di salire. In fondo, per lui non faceva differenza se sul carretto c’era un passeggero in più. Viaggiarono incupiti e silenziosi fino a Allincontrario, poi il giovane lo aiutò a scaricare la merce e gli chiese se c’era una locanda, nel paese, dove potesse alloggiare.
Una locanda? Addolorato si grattò la testa pensieroso. In effetti, nessuno voleva fermarsi a Allincontrario. Alla fine gli disse che poteva stare da lui per la notte, che tanto era solo.
Cercando di farsi scorgere da nessuno, perché gli atti di generosità erano vietati, lo fece entrare in casa e sprangò bene le porte e le finestre.
Tornato in casa, Addolorato si sentì subito meglio, divise con il forestiero una cena frugale e si mise a scaldarsi davanti al fuoco.
Fu allora che successe.
Il giovane prese una sacca che aveva con sé, l’aprì e ne tirò fuori tanti volumi malconci, che sistemò vicino al fuoco per farli asciugare.
Erano pesanti volumi rilegati in cuoio, con le copertine riccamente ornate e le pagine impreziosite da bellissimi disegni.
Addolorato cercò di far finta di niente, ma poi fu vinto dalla curiosità. “Che cosa sono?” chiese al forestiero. “Sono sogni, fiabe, storie…” rispose quello con aria sognante.
Addolorato si sentiva davvero a disagio, come chi sta per varcare un confine da cui non si torna indietro. Ma alla fine chiese il permesso di guardarne uno.
Iniziò a leggere, e subito si sentì trasportare in un mondo sconosciuto, fatto di incantesimi, oggetti magici, animali parlanti, principesse bellissime e principi coraggiosi.
Stupito, scoprì nelle fiabe che nei sogni non c’è nulla di male e che, anzi, si possono addirittura realizzare, qualche volta. Scoprì un piacere sconosciuto, in quello starsene seduto accanto al fuoco immerso in tante meraviglie, così finì per trascorrere tutta la notte accanto al fuoco a leggere fiabe.
Si addormentò poco prima dell’alba e quando si svegliò il forestiero era già andato via, lasciando sul tavolo il compenso pattuito e due libri di fiabe.
Addolorato, per la prima volta in vita sua, non degnò il denaro di uno sguardo e accarezzò affascinato la copertina dei libri, pregustando il piacere che gli avrebbe dato leggerli.
Ma il forestiero, andandosene, aveva lasciato la porta aperta e in quella passò di lì il suo vicino, Martirio. Fu il sorriso felice sul volto di Addolorato a convincerlo a entrare per chiedergli se si sentisse bene. Poi vide i libri. Anche lui rimase incantato dalle illustrazioni, dalle decorazioni delle copertine e alla fine si accordarono per trovarsi a leggere fiabe insieme, quella sera. In cambio, Martirio si impegnava a non divulgare il segreto del suo vicino. Però quei due iniziarono a sorridere più spesso, e ben presto altri si insospettirono per quell’insolito buonumore e scoprirono il loro segreto, iniziando a passarsi quei libri di mano in mano, di nascosto.
Sempre di più diventarono i lettori di fiabe, nel paese di Allincontrario.
Addolorato adesso era contento quando andava a consegnare o ritirare le merci nei paesi vicini, perché ne approfittava per comprare libri di fiabe o per farsene raccontare e poi, di notte, il paese era tutto un bisbigliare storie e un frusciare di pagine.
Come una linfa, quel mondo di fantasia iniziò a infondere forza e coraggio negli abitanti, che si fecero più audaci e iniziarono di nascosto a scambiarsi i lavori secondo le proprie propensioni naturali. Così, non solo ne risultava un lavoro ben fatto, ma gli abitanti ripresero piano piano a riprendersi la fiducia in se stessi e con quella la felicità, gli svaghi, la gioia.
I Governatori del paese non si raccapezzavano di quell’improvvisa vitalità degli abitanti, inasprirono le pene, fecero dei controlli, trovarono e distrussero alcuni libri. Ma le fiabe ormai erano state imparate a memoria e venivano sussurrate ai bambini prima di dormire e scambiate sottovoce tra i banchi del mercato. Dilagavano, con le loro storie di coraggio, di avventure, di bene e male, di magia.
Alla fine gli abitanti di Allincontrario si ribellarono nel modo più dolce che esista, rifiutandosi semplicemente di obbedire alle leggi assurde di quel paese.
Le notti estive si popolarono di balli e feste, e incontri sotto lanterne colorate per scambiarsi fiabe. Anche le guardie ormai si univano alla gente, disubbidendo anche loro agli ordini assurdi.
Gli abitanti, che fino a quel momento avevano portato nomi cupi e pieni di dolore, li cambiarono in Felice, Benedetto, Gioia, Aurora e altri nomi belli e allegri.
Un giorno, i Governanti con le loro regole assurde se ne andarono chissà dove, ma la popolazione nemmeno se ne accorse. E il paese di Allincontrario diventò un luogo molto molto felice e pieno di fiabe.  
 



 

mercoledì 4 giugno 2014

La fanciulla dei fiori di pesco

 Cari amici, siamo alla penultima fiaba di questa disfida.
A domani!


La fanciulla dei fiori di pesco
Era stato un inverno particolarmente piovoso, nella provincia del Yangkuan.
Lu Chan si aggirava inquieto intorno alla barca con cui la sua famiglia si guadagnava da vivere.
Il fiume si era ingrossato parecchio e uscire a pesca era pericoloso, con quel tempo.
Ma, come diceva sempre suo nonno, ‘niente pesci, niente cibo’.
Alla fine, saltò nell’imbarcazione. Guardò il Cielo per chiedere protezione, guardò la Terra per invocarne i favori e levò gli ormeggi.
La corrente si impadronì subito della leggera imbarcazione e ci volle tutta l’abilità di Lu Chan per tenerla in mezzo al fiume, dove correva meno rischi.
Almeno in teoria.
Un’ondata di piena li investì, mentre un tronco trascinato da chissà dove spezzò il remo. Il ragazzo si ritrovò in balia della corrente del fiume, diventato vorticoso e giallo di fango, senza nessun mezzo per governare la barca.  
Suo padre gli aveva insegnato che, quando non c’è altro da fare, bisogna abbandonarsi alla corrente.
Una corrente che lo trascinò lontanissimo dalla sua casa e dal suo villaggio, lungo il fiume.
In quelle lunghe ore, Lu Chan passò dalla disperazione alla rabbia, dalla paura alla rassegnazione. Infine, chissà come, la corrente sembrò calmarsi e lui si addormentò stremato sul fondo della barca.
Quando si svegliò, gli sembrò di essere arrivato in un altro mondo.
La barca era adagiata su una sponda verde, il sole splendeva e il canto degli uccelli si levava alto e felice.
In fondo a un ampio piano verdeggiante, si vedeva una casa così elegante che Lu Chan non ne aveva mai visto di eguali e una moltitudine di alberi di pesco in fiore.
Mentre il ragazzo si chiedeva se fosse il caso di avvicinarsi a quella casa così signorile, una brezza leggera scosse i rami degli alberi, spargendo nell’aria migliaia di petali rosa volteggianti.
“Basta indugiare! Esci da quella barca, che ti darò degli abiti asciutti.”
La ragazza che gli aveva rivolto la parola ancor più bella dei fiori di pesco. Ne aveva la grazia e la leggerezza. La sua pelle sembrava di finissima porcellana e i lunghi capelli scuri come i tronchi degli alberi erano intrecciati con tanta perizia da sembrare un fiume vorticante, trattenuto qua e là da pettini di giada.
Lu Chan se la era trovata accanto all’improvviso, senza capire da dove fosse arrivata. Forse era accanto alla barca, ad aspettare che lui si risvegliasse. Al quel pensiero sentì il cuore gonfiarsi di gratitudine, al pensiero che una creatura così bella si fosse presa tanta pena per lui.
“Dove mi trovo?” chiese scendendo dalla barca.
“Proprio dove ti devi trovare: tra la Terra e il Cielo” rispose la ragazza.
Gli fece strada dentro la dimora, che all’interno era ancora più bella. Pavimenti lustri e mobili laccati e finemente decorati riempivano una successione di stanze, che si affacciavano su un bellissimo cortile interno, adorno di fontane popolate da pesci d’oro e fiori di ogni genere.
Stranamente, in quella casa non c’era nessuno. Né un servitore né un altro abitante.
La ragazza gli fece strada fino a una stanza, in cui erano pronti un bagno caldo e alcuni indumenti puliti adagiati sul letto.
Lu Chan si lavò per bene, indossò quegli abiti finissimi e andò a cercare la sua ospite, che lo attendeva seduta a un tavolo su cui erano imbanditi i cibi più prelibati e gustosi. Poi si sistemarono nel cortile, a vedere il tramonto del sole e infine Lu Chan fu accompagnato nuovamente nella sua stanza.
La ragazza misteriosa  non aveva conversato con lui, eppure ogni suo movimento era così pieno di eleganza che il giovane si sentì irrimediabilmente colpito da un sentimento d’amore tanto forte quanto disperato.
Si ripromise che al mattino le avrebbe chiesto almeno il suo nome e rimase buona parte della notte sveglio, nel buio, a pensare a lei.

Ma al mattino la grande casa era deserta. Lu Chan trovò una buona colazione imbandita per lui e la barca ben sistemata, rifornita di acqua e provviste e con un remo nuovo. Perlustrò la casa in cerca della sua ospite o di qualcuno da cui congedarsi, aspettò qualche ora, ma alla fine, visto che il fiume era tornato tranquillo, si mise in viaggio per tornare a casa.
Solo dopo diverse ore di navigazione si rese conto di avere ancora indosso quegli abiti finissimi che dovevano sembrare molto strani, addosso a un semplice pescatore.
Come volle il cielo, dopo tre giorni iniziò a riconoscere il paesaggio intorno a lui e ben presto arrivò a casa.
I genitori, i fratelli e il nonno, che lo aveva pianto per morto, gli fecero una bella accoglienza e tante domande su come fosse scampato alla piena e su quegli abiti così belli che indossava.
Lu Chan raccontò la sua avventura, ripose per bene quegli abiti preziosi e riprese a lavorare di buona lena per la sua famiglia. La stagione fu straordinariamente fortunata e ben presto la famiglia ebbe non solo di che sfamarsi, ma anche un piccolo gruzzolo da parte.
A quel punto il ragazzo chiese il permesso di andare a ringraziare la sua misteriosa soccorritrice.
Mise gli abiti ben piegati in un fagotto e riprese il fiume.
Navigò per diversi giorni, fino a quando riconobbe lo spazio erboso e gli alberi di pesco. Ma la casa, era in rovina e evidentemente disabitata da lungo tempo. Era la stessa casa, ma invasa dalle erbacce, con gli infissi rotti, le vasche del giardino secche e senza pesci.
Lu Chan vagò a lungo tra quelle rovine, senza riuscire a raccapezzarsi.
Uscì tra gli alberi di pesco, che ora erano carichi di frutti che cadevano a terra , dove marcivano in gran quantità senza che nessuno li raccogliesse.
Infine vide avanzare lentamente una donna che sembrava molto vecchia. Il giovane le rivolse il saluto riservato ai venerabili anziani e le chiese informazioni sugli abitanti di quella casa.
“Oh, quella casa era disabitata già quando io ero bambina. Non ci abita nessuno da molti, molti anni.”
Lu Chan non ci capiva niente. La vecchia lo osservava con occhi penetranti.
“Non è possibile,” disse infine Lu Chan. “Solo questa primavera io sono stato soccorso qui da una fanciulla bellissima e la casa era in ordine.”
“Avrai sognato,” disse la vecchia distogliendo lo sguardo.
Lu Chan afferrò il fagotto con gli abiti e lo mostrò alla donna: “E questi, allora? Dove li avrei presi?”
“La vecchia degnò gli abiti di una veloce occhiata, prima di rispondere: “Li avrai presi dove dovevi prenderli: tra la Terra e il Cielo.”
“Eri tu!” disse subito il giovane all’udire quelle parole. Lentamente, la vecchia iniziò a raddrizzarsi, mentre i capelli perdevano il candore della vecchiaia e il viso si distendeva, fino a ridiventare la bellissima fanciulla incontrata in primavera.   
“Che magia è mai questa?” chieste Lu Chan osservando la casa che tornava splendida come la ricordava.
“Non sono una donna come le altre, Lu Chan, l’avrai capito. Mi chiamano la fanciulla dei fiori di pesco e quando mi sono accorta che nel cuore stava nascendo l’amore ho cercato di risparmiarti le pene che questo ti avrebbe causato.”
“Nessuna pena sarebbe più grande dello starti lontano,” disse il giovane prendendole la mano.
“Così sia, allora” rispose la ragazza, semplicemente.
Si sposarono dopo pochi giorni e vissero a lungo in quell’angolo di mondo così bello, tra la Terra e il Cielo.   

martedì 3 giugno 2014

La regina dei cigni

La regina dei cigni

Fu più o meno a metà dell’Era di Smeraldo che la Regina dei cigni venne uccisa nel corso di una sanguinosa battaglia contro l’esercito dei Corvi.
Ma quello che nessuno sapeva era che la Regina aveva lasciato una figlia, accuratamente nascosta in un luogo sicuro fino a quando non fosse diventata abbastanza grande da reclamare il suo trono…

“Siamo qui da ore, Ametista, adesso dobbiamo proprio rientrare,” disse il cigno pazientemente alla fanciulla adagiata sulla riva del laghetto. L’aveva cresciuta come una figlia, portandola sul dorso, quando era piccola, a nuotare sul lago. Adesso era una splendida fanciulla che stava per compiere sedici anni. “Ancora qualche istante, Gelsomina. Ti prego…” disse la fanciulla giocando con le ninfee e i fior di loto che crescevano vicino alla riva.
Il cigno chinò il lungo collo in segno di assenso. Anche se c’era ancora molto da fare per preparare la festa di compleanno della principessa Ametista, si poteva aspettare ancora un po’. Dopo tutto, se nessuno aveva scoperto il loro nascondiglio in quei lunghi anni, perché mai i loro nemici avrebbero dovuto scoprirlo adesso, che mancavano  solo pochi giorni al compleanno della futura regina?
Un grido di cornacchia risuonò tra gli alberi, facendole correre i brividi lungo la schiena e arruffare le piume.
Di sicuro non era niente di grave, ma le venne una grande urgenza di rientrare a casa.
“Adesso andiamo, Ametista.”
“Ancora un attimo…”
“No. ADESSO!”
La principessa si alzò controvoglia, ma non poteva ignorare l’autorità di colei che l’aveva cresciuta.
Inoltre, Ametista ignorava ancora tutto del suo lignaggio e del suo destino. Pensava di essere una ragazza qualsiasi, anche se cresciuta  tra i cigni, di cui aveva la grazia e il candore.
Gelsomina si levò in volo per accompagnarla, ma ecco altre strida di cornacchia risuonare nelle vicinanze.
Gelsomina si alzò un po’ sopra il bosco e quello che vide le ghiacciò il sangue nelle vene.
Una nube scura di corvi e cornacchie avanzava velocemente verso di loro.
“Corri, nasconditi!” riuscì a dire prima di essere investita da una prima avanguardia di corvi che la circondarono da ogni parte. Gelsomina non era molto giovane, ma esperta di volo sì.
Riuscì con le sue manovre a portare i corvi lontano, verso la casa, sperando in cuor suo che le sentinelle si accorgessero di quello che stava accadendo e venissero in loro aiuto.
Così fu, in effetti, e ben presto uno stormo compatto di cigni arrivò in volo a fronteggiare i corvi e le cornacchie.
Ametista si era infilata in un tronco cavo, ma sentendo le strida non riuscì a resistere alla tentazione di sbirciare.
Quello che vide era impressionante, lo scontro tra i grandi uccelli neri e quelli bianchi copriva quasi tutto il cielo.
In qualche modo, le riportava alla mente un ricordo… No, non lo aveva sognato, adesso ne era sicura. Lei doveva aver già assistito a una battaglia simile, quando era molto piccola.
I ricordi iniziarono a tornare, spezzati e incerti. Ma in quel momento Gelsomina atterrò vicino al suo nascondiglio. Era coperta di sangue e di ferite. “Presto! Salimi sul dorso!” le disse.
“Ma sei ferita. Non vorrei…”
“Non discutere con me, signorina!”
Ametista salì sul dorso del cigno, che immediatamente prese il volo. C’era un palazzo pronto per Ametista, sul fianco di una montagna scoscesa, in cui si stavano facendo i preparativi per l’incoronazione che avrebbe seguito il suo compleanno.
Il cigno voleva con tutte le sue forze portare in salvo l’erede al trono. Solo questo importava.
Ma evidentemente i corvi e le loro nuove alleate, le cornacchie, avevano previsto anche questa mossa.
Ben presto le due furono intercettate da uno stormo e impegnate in una battaglia impari che le vide infine  precipitare al suolo. Gelsomina si ferì un’ala nella caduta, ma la principessa si fece solo una lieve contusione a una gamba.
I corvi le chiusero in una rete, trattenendone i lembi con il becco mentre si levavano in volo.
Le portarono in un palazzo completamente nero, dove furono prese in consegna da altri corvi che le rinchiusero in una segreta oscura.
Lì le due poterono parlare in fretta di quello che le attendeva. Gelsomina cercava di informare la principessa delle sue origini e del suo ruolo, ma ebbe la sorpresa di scoprire che adesso la ragazza  ricordava perfettamente la battaglia in cui aveva perso la vita sua madre.
C’era ancora qualcosa, però, che non riusciva a ricordare. Qualcosa che sua madre le aveva dato, o detto, e che doveva essere importante. Ma che cosa? Era così piccola, quando erano avvenuti quei fatti. “Cerca di ricordare,” la incitava il cigno, ma il ricordo le sfuggiva come sabbia tra le mani.
Intanto Gelsomina si era avvicinata alle sbarre che chiudevano l’unica strettissima finestrella che dava luce alla cella e stava cercando di convincere un passerotto reticente a portare un messaggio all’esercito dei cigni, per informarli sulla loro posizione.  
Alla fine, stremata, Gelsomina si lasciò cadere sul fondo della cella. E iniziò a cantare. Ametista si disperò, nell’udire quel canto, perché significava che il cigno stava morendo.
Iniziò a piangere, accanto al cigno morente quando all’improvviso ricordò quello che sua madre le aveva detto, prima di morire. Le aveva consegnato un incantesimo potentissimo, in grado di controllare le forze del cielo e di curare le ferite. Allora anche Ametista iniziò a cantare le formule dell’incantesimo.
Arrivò dapprima un forte vento, che fece tremare fino alle fondamenta la fortezza nera in cui erano rinchiuse. Poi chiamò la pioggia e la grandine. Le mura iniziarono a sgretolarsi intorno a loro, mentre il vento chiamato dalla principessa aiutava l’esercito dei cigni a raggiungere più velocemente quel luogo desolato.
Ametista si inginocchiò accanto al cigno e cantò, fino a quando le ferite si rimarginarono e l’ala guarì. Il potere della principessa era arrivata all’improvviso e con una potenza di cui non si conoscevano eguali da molte ere. La battaglia fu vinta dai cigni, i corvi e le cornacchie scacciate e finalmente Ametista poté raggiungere con Gelsomina il palazzo che l’attendeva e dove fu incoronata Regina dei Cigni, che governò a lungo in pace e prosperità.
   


 Buonanotte.

lunedì 2 giugno 2014

la Sirena delle miniere d'oro

La Sirena delle miniere d’oro

C’era una volta un regno molto ricco, per via di una montagna piena d’oro.
Per estrarre l’oro dalla montagna, gli uomini avevano scavato miglia e miglia di tunnel che si perdevano all’interno della roccia.
Le miniere erano così profonde che non di rado si trovavano laghi sotterranei o grandi grotte in cui non arrivava nessuno, se non i minatori.
Il fortunato re di quel regno aveva tre figli, tutti belli e intelligenti, ma il più giovane era il più gentile e di buon carattere dei tre.
Accade a un certo punto che dalle miniere si iniziò a estrarre sempre meno oro e sempre meno.
Il re interrogava il dirigente della miniera, ma lui sosteneva che nulla era mutato: gli uomini erano sempre nello stesso numero, scendevano nelle miniere per lo stesso numero di ore e le vene d’oro erano ben lungi dall’esaurirsi. Non sapeva proprio spiegare come mai l’estrazione dell’oro fosse diminuita.
Il re voleva vederci chiaro, quindi incaricò il suo figlio minore di travestirsi da minatore e di andare a verificare di persona che cosa succedeva.
Il lavoro nelle miniere non era certo dei più ambiti, ma il giovane principe accettò di buon grado, per rendersi utile al padre.
Il giorno dopo scese nel ventre della montagna con il suo piccone. Il caposquadra lanciava ordini e bisognava essere veloci a eseguirli. A ogni uomo fu assegnato un tratto di roccia e tutti si misero al lavoro. A un tratto, però, una luce dorata iniziò a invadere quegli anfratti bui, mentre una voce soave risuonava da una capo all’altro delle miniere.
Gli uomini, come ipnotizzati, abbandonarono i loro picconi e si diressero verso l’origine di quel suono melodioso, fino alle rive di un lago sotterraneo. Appoggiata alla riva, una fanciulla bellissima cantava.
Il canto della sirena era magico, e ogni uomo pensava in quel momento che ella cantasse solo per lui. Ciascuno in cuor suo si sentiva finalmente compreso e amato. Al termine di quel canto, tutti gettarono nel lago l’oro raccolto fino a quel momento e tornarono ai loro posti, riprendendo il lavoro senza ricordare nulla.
Quando il principe tornò al castello, quella sera, il re lo interrogò a lungo. Ma il poverino poté dire solo quello che ricordava: che tutto si era svolto normalmente.
Solo una volta nel suo letto gli prese una sorta di nostalgia struggente, come se nel cuore della montagna fosse successo qualcosa di magnifico.
L’indomani il principe tornò al lavoro e tutto si svolse come il giorno precedente.
Solo, quel giorno qualche nota della melodia della fata rimase impigliata nella memoria del principe, che la fischiettò mentre tornava a palazzo.
Lungo la strada percorsa dal principe viveva una fanciulla, buona di cuore e molto curiosa, che già il giorno prima si era fatta mille domande vedendo quel minatore che veniva direttamente al palazzo del re e poi vi tornava la sera. Sentendo poi il motivo che il principe fischiettava, le venne un sospetto.
Il giorno dopo, quando gli uomini furono scesi nelle miniere, prese una bella brocca piena d’acqua fresca e si presentò all’ingresso, dicendo che come fioretto aveva preso l’impegno di portare da bere a quelle persone che faticavano tanto. La lasciarono passare e lei si diede a offrire l’acqua ai minatori.
Stava giusto offrendo da bere al giovane principe, stupendosi di quel garbo insolito per un minatore, quando ecco la luce dorata e il canto. La ragazza, che come tutte le donne era immune dal canto delle sirene, vide gli uomini abbandonare i picconi, come trasognati, recarsi sulle rive del lago e poi gettare in quelle acque l’oro raccolto.
La ragazza stette ben nascosta per tutto il tempo, poi se ne andò come se nulla fosse.
Il re, intanto, aveva perso la pazienza con il figlio e, pensando che lo volesse imbrogliare, decise di lasciarlo per sempre a lavorare come minatore. Il mattino dopo disse al principe che, se non scopriva il mistero dell’oro scomparso, tanto valeva che si risparmiasse il disturbo di tornare al palazzo. Poiché a sera il principe non era più vicino al mistero di quanto lo fosse al mattino, si sedette su un masso lungo la via, prendendosi la testa tra le mani. Che cosa poteva fare?
In quella lo vide la ragazza, gli si accostò gentile e gli chiese il motivo dei suoi crucci. Il principe le raccontò ogni cosa e la ragazza gli diede riparo nella sua casetta per la notte, gli servì una buona zuppa e gli disse di stare allegro, perché lei aveva la soluzione.
Il mattino dopo prese della cera dall’alveare e la mise nelle orecchie del principe, dopo avergli spiegato che avrebbe visto quello che gli serviva e dopo avergli consegnato un pugnale che era appartenuto a suo padre, minatore anche lui ma morto tanti anni prima.
Il principe, con le orecchie piene di cera, non poté udire il canto della sirena, ma vide la luce dorata, la sirena e gli uomini che gettavano l’oro nel lago.
Avrebbe voluto uccidere la sirena, ma prima voleva sapere che cosa la spingeva a comportarsi così. Se si fosse tolto la cera dalle orecchie, però, la sirena lo avrebbe incantato e non gli avrebbe dato le risposte che gli servivano, così a sera il principe tornò a casa della ragazza. Si accordarono sul da farsi, e il giorno seguente il principe si recò in miniera con le orecchie piene di cera e la ragazza al suo fianco travestita da minatore. La scena si ripeté come sempre, ma questa volta il principe afferrò la sirena e la tenne ferma puntandole il pugnale, mentre la ragazza la interrogava. “Perché rubi l’oro delle miniere?”
“Per un pegno d’amore,” rispose la sirena. “Tanti anni fa amai un uomo che lavorava in queste miniere e gli diedi una figlia umana. Lui promise che ogni anno avrebbe portato nostra figlia a trovarmi e io gli detti in pegno un pugnale di un metallo che non si rovina mai, ma da anni non si è fatto più vedere e io ho bisogno di molto oro per comprarmi dalla regina delle sirene la possibilità di avere le gambe per qualche tempo e andare a cercare mia figlia.”
La ragazza allora le chiese se avrebbe potuto riconoscere il pugnale e le chiese di guardare quello stretto nel pugno del principe. La sirena lo riconobbe e la ragazza le raccontò che l’uomo che lei aveva amato era morto da molti anni, ma che lei era quella figlia perduta.
Il principe non capiva niente, perché aveva le orecchie piene di cera, ma seguì stupito gli abbracci e i pianti delle due. Infine la ragazza gli fece segno di togliersi la cera dalle orecchie e spiegarono ogni cosa anche al principe. La sirena, felice di aver ritrovato la figlia e intuendo l’amore che stava nascendo tra i due, volle dare loro come dono di nozze tutto l’oro sottratto ai minatori fino a quel momento, che era moltissimo.
Inoltre, quando tornarono alla misera casetta della ragazza, la trovarono trasformata in un bellissimo palazzo, con servitori fatati che li informarono che un palazzo uguale li attendeva nel regno delle sirene, a loro disposizione ogni volta che avessero voluto andare a far visita alla madre della ragazza.
Il principe cercò di spiegare al padre quello che era successo, ma questi rifiutò di vederlo.
Ma lui e sua moglie vissero ugualmente per sempre felici e contenti, protetti dalle sirene.
    
E anche oggi una nuova fiaba...

domenica 1 giugno 2014

Il folletto col singhiozzo

Il folletto col singhiozzo

Quella mattina tutto si svolgeva come al solito, a casa di Hans il folletto.
La mamma era affaccendata in cucina, quando uno strano suolo la fece fermare per qualche istante: hip. Hip. HIP.
Il suono si avvicinava e infine Hans, con l’aria assonnata e il berretto di traverso, fece il suo ingresso in cucina.
“Che bel singhiozzo ti è venuto!” disse la mamma con un sorriso comprensivo.
“Hip!” disse Hans.
“Qua, fai colazione che poi devi andare a prendere la legn…”
“Hip!”
All’improvviso, una catasta di legna comparve nell’angolo della cucina.
“Oh, oh!” disse la mamma.
“Hip!” disse Hans.
“Trattieni il fiato, è un buon rimedio contro il signiozzo:”
“Hip!”
Hans trattenne il fiato fino a quando la faccia e le orecchie gli diventarono tutte rosse. Poi, quando non ne poté più, inspirò. “Hip. Hip. Hip.”
“ Non t’è passato. Prova a bere sette piccoli sorsi d’acqu…”
“Hip!”
Una secchiata d’acqua allagò buona parte della cucina.
“Via Hans,” disse la mamma molto meno comprensiva. “Vedi che qui fai danni. Vai a farti passare quel singhiozzo fuori, da bravo. Eccoti un bel pezzo di pane e marmellat…”
“Hip!”
Una bella fila di barattoli comparve subito sul tavolo. Erano tutti di marmellata di more, la preferita di Hans.
La mamma strinse forte la bocca, diede al folletto il suo pane e marmellata e lo spinse fuori dalla porta.
Hans sedette su un tronco e iniziò a sbocconcellare controvoglia la sua colazione tra un “hip” e l’altro.
In quella arrivò il suo amico Pettirosso. “Ciao Hans! Colazione all’aperto, oggi, eh? Me ne daresti qualche briciol…”
“Hip!”
Quello che emerse qualche secondo dopo da una montagnola di briciole più alta di lui era un Pettirosso molto   offeso. “Hip,” fece Hans in tono di scusa, ma quello si scrollò e se ne volò via borbottando: “Che maniere!”
 A quel punto risuonò una risata, mentre Coniglio, un altro amico di Hans, si rotolava per terra per il gran ridere. “Che spasso! Mai visto Pettirosso tanto arrabbiato! Ti sei preso il singhiozzo-desiderio, vero?”
“Hip!”
“Bene! Allora, se non ti dispiace, amico mio, vorrei un po’ di carot…”
“Hip!”
Coniglio fu sommerso dalle carote, tra cui si rotolava ridendo come un matto.
Quando finalmente riuscì a calmarsi, prese una carota e andò a sedersi vicino a Hans.
“Non ti preoccupare,” disse sgranocchiandola di gusto. “Ho un rimedio infallibile.”
Hans gli sorrise debolmente, “Hip!”
E… BUM! Il colpo di zampa di Coniglio sul tronco risuonò per tutto il bosco. Hans sobbalzò per lo spavento, facendo finire per terra la sua colazione.
“Hip. Hip…”
“Non ti è passato?” disse Coniglio osservando Hans con curiosità. “Strano. Funziona sempre. Direi che dobbiamo andare a casa della Strega del bosco. Lei avrà la soluzione.”
Un po’ tirando Hans e un po’ spingendolo, Coniglio si avviò per il bosco sgranocchiando un’altra carota ed evitando di parlare.”
Quando furono alla casetta della Strega, si affacciarono sull’uscio e Coniglio chiese: “Si può?”
La Strega del bosco, che era una donna bellissima con lunghi capelli biondi, era vicino al paiolo sul fuoco, da cui usciva un profumo di erbe. “Entrate, accomodatevi. Il rimedio per Hans è quasi pronto,” disse la Strega.
“Come facevi a sapere che stavamo arrivando?” volle sapere Coniglio.
“Indovina! Il singhiozzo del tuo amico si sente fin qui da questa mattina!” sorrise la strega versando un mestolo di una cosa verdastra in una tazza che posò davanti a Hans: “Coraggio. Bevi, che ti passa tutto.”
“Hip!” fece mestamente Hans guardando con diffidenza il contenuto della tazza. Poi, preso coraggio, bevve il contenuto.
La Strega e Coniglio lo guardavano pieni di trepidazione.
“Hip!”
I due iniziarono a consultarsi sul rimedio migliore per quel singhiozzo ostinato e intanto Hans, che non aveva ancora fatto colazione e iniziava ad avere un po’ fame si accorse che sul tavolo c’era un piatto di biscotti ricoperti di zucchero dall’aria invitante. Ne prese uno. Era proprio buono. Ne prese un altro.
“Potremmo provare con l’erba gatta,” Stava dicendo Coniglio, ma la Strega scuoteva la testa. 
 “Era già nel rimedio che gli ho dato. Forse un bello spavento?”
“Macché, ci ho già provato,” disse Coniglio con aria assorta.
A quel punto Hans, che aveva mangiato quasi tutti i biscotti, si avvicinò per dire la sua:” Nemmeno trattenere il fiato e bere sette sorsi d’acqua ha funzionato…”
I tre continuarono a fare congetture per un bel po’, fino a quando la Strega fissò il folletto: “Ma, Hans, ti è passato!”
“In effetti sì,” disse Hans togliendosi il berretto per grattarsi la testa. A quel punto una massa di capelli gli scese sulle spalle e oltre.
“Oh no!” genette la Strega. “Hai mangiato tu i biscotti contro la calvizie che erano sul tavolo?”
“Erano biscotti contro la calvizie?” I tre si fissarono per qualche istante, poi Coniglio iniziò a rotolarsi per terra con quella sua risata contagiosa, imitato ben presto dagli altri due.
Forse sono ancora lì a ridere, perché queste sono cose che succedono, nel Grande Bosco…


Anche oggi ce l'abbiamo fatta. Buone fiabe, buonanotte!