lunedì 22 dicembre 2014

Il piccolo drago

La fiaba di questo fine settimana, come sempre scelta da Voi votando gli gli spunti sulla pagina facebook della Disfida.

Il piccolo drago (prima parte)

Il cavaliere cupo osservava  senza vederla la figlia che giocava sul prato, immerso in neri pensieri.
Aveva sbagliato le alleanze e dato prova di intolleranza una volta di troppo.

Aveva perso il suo feudo, aveva perso il suo castello, aveva perso la sua sposa in quell’ultima cruenta battaglia.
Forse avrebbe dovuto rallegrarsi di avere ancora la vita e la sua figlioletta, che rincorreva spensierata farfalle. Ma non ci riusciva.
Non sapeva che cosa aspettarsi da quella marcia penosa che aveva intrapreso per raggiungere suo cugino, oltre le montagne.
Forse lo avrebbero aiutato, forse avrebbe potuto tornare alla testa di un esercito a reclamare quello che era suo di diritto.  Oppure il suo lunatico cugino si sarebbe limitato a offrirgli ospitalità, come voleva la tradizione, ma nulla di più.

- Eleonor! Vieni a mangiare!
La lepre che aveva cacciato e posto ad arrostire sul fuoco era ormai pronta.
La bambina si avvicinò tenendo qualcosa racchiuso con delicatezza tra le due mani unite. Una cavalletta, a giudicare dal bagliore verde che aveva scorto guizzare tra le piccole dita.
- Padre, guardate…
La bambina dischiuse i palmi e il cavaliere gettò un’occhiata distratta. Poi guardò meglio.
Un drago piccolissimo e dall’aria bellicosa si scrollava sulla mano di sua figlia.
“Per tutti i diavoli” pensò il cavaliere. Aveva sentito narrare molte storie sui draghi. Creature possenti in grado di distruggere molti uomini con una sola zampata. Non si aspettava certo una creatura così minuscola da poter essere schiacciata come un insetto. Eppure, sicuramente, di un drago si trattava. Il piccolo corpo era coperto di squame lucenti, che brillavano al sole come smeraldi. Sulla schiena ricca di aculei si aprivano due ali che il cavaliere distese delicatamente con la punta delle dita. Il piccolo drago lo morse all’istante, rivelando una mandibola ricca di dentini affilati come lame. Il cavaliere rise.

- Posso tenerlo, padre? Posso tenerlo?
Eleonor saltellava da un piede all’altro, in preda all’eccitazione.
Il cavaliere fu colto da un’ondata di tenerezza per quella piccola che lo seguiva da giorni in quel viaggio per territori impervi, dormendo all’addiaccio e mangiando quello che capitava senza mai lamentarsi.
- Va bene. Puoi tenerlo. Ma solo se non cresce troppo. Che nome vuoi dargli?

In quella sentì una voce riverberargli nella mente. “Flagello. Mi chiamo Flagello.”
- Flagello - disse la bambina sedendosi accanto al padre. – Credo che si chiami Flagello.
Il piccolo drago fece un vigoroso cenno d’assenso con la testolina, emettendo per l’eccitazione una piccola fiammata dalle narici.
“Di certo è un bel tipetto” pensò il cavaliere iniziando a mangiare, e per la prima volta da giorni un sorriso gli aleggiò sul volto. Il piccolo drago fece onore al pasto improvvisato, azzannando voracemente i pezzetti di lepre che gli venivano offerti. Poi sbadigliò emettendo un piccolo anello di fumo, si acciambellò sulla spalla di Eleonor e si mise a dormire.
Il cavaliere lo osservò per un bel pezzo, mentre il cielo imbruniva e si copriva di stelle. Coprì con cura la figlia addormentata con il mantello e rimase sveglio a lungo immerso nei suoi pensieri.
Ma alla fine si addormentò anche lui, seduto con la schiena appoggiata al tronco di un albero.
Fu svegliato da un pensiero allarmato. “I lupi!”
Il piccolo drago era ben sveglio e scrutava sbuffando un punto nell’oscurità. Il cavaliere balzò in piedi, impugnando la spada con una mano e un ramo infuocato con l’altra. Due occhi lo scrutavano in lontananza. Il cavaliere si slanciò in avanti e la sagoma scura che lo aveva osservato si allontanò, forse giudicandolo una preda un po’ troppo bellicosa.
Il cavaliere tornò accanto al fuoco. Eleonor continuava a dormire tranquilla. - Grazie per avermi svegliato – disse a Flagello mentre riattizzava il fuoco.
La risposta giunse immediata nella sua mente: “Hai bisogno di riposare. Stai tranquillo. Sto io di guardia.”
Il drago si pose oltre le fiamme, intento a scrutare l’oscurità e il cavaliere non dubitò nemmeno per un istante di potersi fidare.
 
(segue…)


Il piccolo drago (parte seconda)

Dormì sereno come non gli capitava da tempo, senza sussultare a ogni minimo fruscio e senza incubi.
Quando si svegliò, ben riposato dopo tanti giorni, trovò il drago intento a riattivare il fuoco con piccole fiammate che emetteva dalla bocca.
Gli prese un senso di gratitudine per quella piccola creatura che si rendeva così utile e lo ringraziò con un sorriso.
- Grazie a te, potremo avere una colazione calda. Eleonor ne sarà felice.
Il drago sbuffò ancora un po’ di fuoco e indicò due frittelle dolci, posate su una foglia lì accanto.
Il cavaliere si chiese come avesse potuto trasportarle, visto che erano molto più grandi del drago, ma non disse nulla per non ferirne i sentimenti. Invece svegliò sua figlia e si dedicarono a una breve colazione, prima di rimettersi in viaggio.
Mentre ritornava con la mente alle consuete preoccupazioni, venne interrotto da un pensiero del drago: “Ma perché andare da tuo cugino, visto che non sai se ti darà aiuto?”
L’uomo scosse la testa.  – Non ho altre alternative…
“Potrei chiamare i miei parenti”  gli comunicò il drago, fissandolo con aria fiera.
- Non credo che sarebbero di grande aiuto…
“Oh! Ma non sono tutti come me. Io sono venuto così per via di un incantesimo, ma gli altri sono di dimensioni più… consuete.”
- E sarebbero disposti a combattere per me?
“Possiamo sempre chiedere” rispose il draghetto.
Mentre Eleonor si gustava la sua ciambella dolce, il drago si arrampicò su un alto albero e iniziò a cantare.
Il canto dei draghi somiglia molto al sibilo del vento e copre in poco tempo grandi distanze. Alla fine sembrava che tutta l’aria intorno vibrasse di quella strana melodia. 
Il cavaliere fissava il cielo e a un tratto scorse dei puntolini in lontananza, che si ingrandivano sempre di più avvicinandosi…
Il primo ad atterrare sul prato davanti a loro fu un maestoso drago tutto nero. Era così immenso che la sua testa rimaneva ben al di sopra degli alberi più alti e la sua zampa – notò il cavaliere con una certa apprensione – era più grande di un uomo tutto intero e ornata di lunghi artigli.

“Ciao papà!” lo saluto allegramente il piccolo drago. In rapida sequenza ne arrivarono altri dieci, tutti enormi e ugualmente spaventosi.
Flagello li presentò al cavaliere e spiegò la situazione con mirabile chiarezza, chiedendo il loro aiuto per riconquistare il feudo. Evidentemente, mentre il cavaliere dormiva il drago aveva letto profondamente nella sua mente e nel suo cuore.
 
“Perché dovremmo aiutarlo?” chiese infine il drago nero.
“Perché io mi sono legato alle sorti di questa famiglia e quella deliziosa bambina mi vuole tenere con sé” rispose Flagello.
I draghi ponderarono la questione per un tempo che al cavaliere parve lunghissimo, ma alla fine acconsentirono, chiedendo al cavaliere di giurare che si sarebbe preso buona cura di Falgello. Presero a volare in formazione al di sopra dei cavalli, ora lanciati la galoppo nella direzione opposta.
Il cavaliere scelse percorsi ancora più isolati, ora che i draghi volavano sopra delle loro teste, per evitare che qualcuno scorgesse quel singolare esercito composto da un nobile cavaliere, da una bambina, da un drago minuscolo e da dieci enormi draghi volanti.
Il viaggio di ritorno fu più breve, perché di draghi li aiutavano nei passaggi più difficili sollevando i cavalli con tutto il loro carico e portandoli in volo per un tratto. 
Quando arrivarono ai piedi del castello era già calata l’oscurità.
Al cavaliere batteva forte il cuore, pensando alla sua casa e alla sorte della sua amata sposa. Ma i draghi furono rapidi e silenziosi. In un attimo si sbarazzarono delle sentinelle e portarono il cavaliere oltre il fossato e le spesse mura di cinta.
Eleonor, con Flagello accomodato su una spalla, fu affidata a un drago bianco che l’avrebbe protetta a costo della vita.
Alla fine fu facile, con l’aiuto dei draghi, riconquistare il castello e avere la meglio sull’esercito degli usurpatori. I pochi superstiti fuggirono urlando terrorizzati nella notte e il cavaliere era certo che non avrebbero osato sfidarlo mai più.
Liberati i suoi uomini dalle segrete, ebbe la gioia di sapere che la sua sposa era viva, anche se tenuta prigioniera nella torre più alta.
Il cavaliere corse a liberarla, salendo i gradini a quattro a quattro.

I draghi rimasero per qualche giorno ospiti del castello, mentre il cavaliere riprendeva possesso di quanto gli apparteneva. Dormivano raggomitolati sulle torri e accettavano di buon grado i lauti banchetti che il cavaliere e sua moglie, al colmo della gioia, volevano offrire in ringraziamento.
Alla fine dovettero partire, ma il cavaliere rimase a lungo il signore più temuto della regione, colui che aveva l’alleanza dei draghi.
Flagello rimase per sempre l’ospite più onorato e la sua immagine svetta ancora oggi sullo stemma della casata. Visto così, sembra proprio un terribile drago e sono in pochi a sapere che in realtà era lungo quanto un pollice. Ma valoroso e fedele quanto il più grande dei draghi.






domenica 14 dicembre 2014

Scarpe e cappello






Ecco la fiaba del fine settima.

Per piacere, non smettete mai di sognare.


 Scarpe e cappello

C’era una volta un uccellino brontolone, che trovava sempre il modo per lamentarsi di tutto. Il sole era troppo caldo, la pioggia troppo bagnata, gli alberi troppo alti o troppo bassi…

I suoi parenti dello stormo erano sempre di buonumore e iniziavano ogni giorno cantando felici, mentre lui si lamentava di aver dormito in un  nido troppo scomodo e di essere stato disturbato da una goccia di rugiada.

Tutti gli volevano bene e lo ascoltavano pazientemente, ma quell’autunno, quando venne il momento di migrare, l’uccellino brontolone si stava lamentando a voce tanto alta che non udì il richiamo.

Così, lo stormo partì senza di lui, che era talmente impegnato a lagnarsi da accorgersi di essere rimasto  indietro solo diversi giorni dopo. All’improvviso, sporgendosi dal nido un bel mattino, si rese conto di uno strano silenzio. Nessuno cinguettio, nessuno che cantava felice.

Chiese informazioni a uno scoiattolo, scoprendo che lo stormo ormai era partito ormai da troppo tempo per poter sperare di raggiungerlo.

L’uccellino scese a terra e iniziò a passeggiare avanti e indietro, tenendosi dietro le alucce e a capo chino. Naturalmente, la sua situazione era molto preoccupante e l’uccellino ragionava e si lamentava a voce alta. Così non si rese conto dell’arrivo di un coniglio bianco che arrivava a tutta velocità, a testa bassa, lamentandosi a sua volta: “Povero me. Povero me. Sono DI NUOVO in ritardo.”

Lo scontro fra i due fu bello tosto e ruzzolarono in direzioni opposte. Si rialzarono entrambi tenendosi le capoccine, ma l’uccellino – che era più allenato – iniziò per primo a lamentarsi.

“ Ma dico io se bisogna andare in giro senza nemmeno guardare dove si va!”
Ma anche il coniglio fu lesto a riprendersi: “Proprio! E sono già in tremendo ritardo!”
“Ma almeno lei non è stato abbandonato dal suo stormo, con l’inverno alle porte e nessun riparo conveniente e…”
“Va bene, va bene” tagliò corto il coniglio, che non era un tipo molto paziente e inoltre andava di fretta. “Facciamo così, caro uccellino. Per farmi perdonare, vi invito a trascorrere l’inverno nella mia tana. È dotata di tutti i comfort, è calda e c’è spazio in abbondanza. Se volete seguirmi, vi mostro la strada.”
Detto ciò il coniglio riprese a filare a perdifiato e l’uccellino dietro, sempre brontolando.

Ma… un momento. Perché l’uccellino adesso camminava, invece di volare?
Che cosa dite? Colpa della botta in testa?
Può darsi. Può darsi…

Dopo un bel tratto di strada, il coniglio bianco si infilò in una tana e l’uccellino lo seguì.
In effetti era una bella tana spaziosa, arredata con gusto e con un bel camino in cui ardeva un fuoco scoppiettante. Ma credete che il nostro brontolone fosse soddisfatto? Nemmeno per sogno.

Mentre il coniglio si aggirava per la casa cercando chissà che, l’uccellino gli andava dietro pigolando: “E non sono nemmeno equipaggiato per questo freddo tremendo. Non possiedo nemmeno un paio di scarpe, né un cappello…”
“Scarpe e cappello” ripeté il coniglio, tirando fuori un ventaglio da un cassetto. “Molto bene, amico mio. Devo uscire per una commissione. Vi comprerò io quanto vi necessita. Intanto, mettetevi a vostro agio, io tornerò tra poco. Scarpe e cappello. Scarpe e cappello…”
Ripetendo quelle parole, il coniglio uscì in fretta e furia.

L’uccellino si guardò intorno. Era completamente solo nella tana silenziosa e così non c’era gusto a brontolare. Sedette accanto al fuoco e ben presto si appisolò.

Fu svegliato di soprassalto dal coniglio che rientrava nella tana gridando trionfante: “Scarpe e cappello!”
L’uccellino sbatté gli occhi. Non ricordava niente. “Dove mi trovo?”
Il coniglio scoppiò a ridere. “Oh bella! Siete a casa mia, caro amico. Mi sono ricordato di comprarvi quello che avete chiesto, vedete?”  Così dicendo, il coniglio bianco gli sventolò sotto il becco un paio di stivalucci rossi e un cappellino di foggia alquanto strana. “ A proposito, io sono Bianconiglio. Con chi ho l’onore di parlare?”

L’uccellino scrollò la testa, cercando di ricordare. “Scarpe e cappello…” mormorò.
“Scarpe e cappello?” rise ancora il coniglio. “Un nome singolare.”
Il coniglio era di ottimo umore e si diede da fare per allestire una buona cena per il suo ospite. Parlò ininterrottamente per tutto il tempo della cena e anche dopo, mentre rigovernavano e si sedevano accanto al fuoco. Così l’uccellino, che aveva perso la memoria, non si ricordò nemmeno una volta di lamentarsi.
Così trascorse i mesi seguenti, in compagnia del coniglio che era sempre allegro e chiacchierone, vivendo come un coniglio.
La memoria gli riaffiorava solo a tratti, cogliendolo come una strana nostalgia di un’immensità azzurra o di voci cinguettanti.
Ma fu solo in primavera, quando uscito per una commissione udì il cinguettare festoso dei suoi parenti, che ritrovò la sua identità. Mentre camminava indossando ancora i suoi indumenti un uccellino gli si parò davanti. “Ehi, ma non sei tu l’uccellino brontolone?”
“Io? Io no. Sono Scarpe e cappello.”
L’altro volatile iniziò a ridere così forte che finì a pancia all’aria sull’erba.  
“Ma no! Mi ricordo di te. Tu sei mio cugino di nono grado. Ne sono sicuro. Sei quello che si è perso durante la migrazione dello scorso autunno! E perché cammini, invece di volare?”
L’uccellino si guardò le zampe, perplesso. Poi piano piano gli tornò la memoria. Aprì le ali e fece un voletto. Com’era bello, tornare a volare! E quante cose aveva da raccontare alla sua famiglia!
Da quel giorno, l’uccellino fu sempre felice e cinguettoso come gli altri della sua razza. Non si lamentava più, perché adesso la sua vita gli sembrava stupenda. Rimase per sempre amico del coniglio, però, che continuò nel corso degli anni a chiamarlo Scarpe e cappello.

lunedì 8 dicembre 2014

Le decorazioni di Natale

Fiaba del fine settimana . Buona festa dell'Immacolata a tutti


Dedicata a Bastian. E a Briciola

Le decorazioni di Natale

C’era una volta un paese che si preparava al Natale. Tutti correvano affaccendati da una parte all’atra, ornando alberi, appendendo ghirlande e scambiandosi regali, pregustando le pietanze e i dolci che avrebbero accompagnato la festa.
Solo un giovane se ne stava un po’ in disparte, osservando più che partecipando a quell’andirivieni.
Si chiamava Bàstian.
Chissà se per il nome o per destino, era noto a tutti come Bastian Contrario.
Poco incline alle convenzioni, il giovane era guardato con diffidenza e, sotto sotto, considerato un po’ un guastafeste.
Se ne stava seduto fuori dall’uscio, accanto a un bell’abete completamente spoglio. A nessuno veniva in mente di interrogarlo su quella stranezza, visto che tutti erano abituati alle sue bislaccherie. 

Ma no, un momento.

Una bambina si distacca da un gruppo di monelli intenti a costruire un pupazzo di neve. Lo fissa direttamente negli occhi blu cupo.
«Perché il tuo albero non è decorato?»
Ah, i bambini sì che sanno come andare dritti al punto.
Bastian scuote appena la testa, facendo ondeggiare la lunga chioma che porta legata in una coda e i sei anellini d’argento che gli ornano l’orecchio.
«Perché è in attesa. È questo, il significato del Natale.»
La bambina decide che la faccenda merita qualche spiegazione in più e si avvicina di un passo.
Bastian accenna un sorriso e le fa cenno di aspettare. Entra in casa e ne esce con in mano un vassoio pieno di dolcetti.
Si siedono sui gradini della soglia.
«Spiega» chiede la bimba tra un boccone e l’altro.
Attirati dalla comparsa dei dolcetti, altri bambini si avvicinano e prendono posto sui gradini.
«Ogni anno» inizia a raccontare Bastian «mi preparo al Natale decidendo di accettare qualcosa di importante. Vi ricordate quel cagnolino che avevo trovato e accolto, diversi anni fa?»
I bambini fanno di sì con la testa. Hanno tutti la bocca piena di dolcetti e sanno che non devono parlare. Sono bene educati. Ma ricordano bene il vecchio cane malandato che accompagnava sempre Bastian ovunque andasse.
«Lui mi ha dato l’idea. Per festeggiare il Natale, bisogna accogliere. Aprire il cuore e accettare qualcosa che prima non ci stava. Da allora, ogni anno decido che cosa accoglierò quel Natale e per tutto l’anno mi sforzo di aprire il cuore a quella cosa.»
La bambina solleva lo sguardo: «Per esempio?» chiede prima di servirsi un altro dolcetto.
«Per esempio, un anno ho deciso di accettare il carattere del fornaio.»
«Sta antipatico a tutti, quello» interviene un bambino che intanto si è rialzato, impaziente di tornare a giocare.  
«Invece, parlando con lui, ho scoperto che ha anche molte belle qualità. Si comporta in modo burbero, ma in realtà ha un animo sensibile. Voi lo sapete che nel tempo libero dipinge? E dovreste vedere che belle cose fa. Ma per modestia, non le mostra quasi a nessuno.»

Il vassoio dei dolcetti si è svuotato rapidamente. Alcuni sono già tornati al pupazzo di neve.
La bambina indugia pensosa ancora un attimo, poi saluta e va a giocare con gli altri, mentre le mamme iniziano a richiamare i bambini a casa nell’aria fredda che ha preso a imbrunire.

Ma succede una cosa strana.
Tutti i bambini rifiutano la merenda, dicendo di averla già fatta da Bastian.
Interrogati dai genitori, finiscono per riportare le parole del ragazzo e per spiegare il perché di quell’albero senza decorazioni, fuori dalla sua porta.
La voce dilaga, passando da un racconto all’altro.

Il mattino dopo, sull’albero di Bastian c’è un cartoncino a forma di cuore, su cui una mano infantile ha scritto “Accetto le noiose visite alla zia Carlotta”
Con il passare dei giorni, l’albero di Bastian si veste di tanti cartoncini simili, di piccoli oggetti simbolici, persino di un piccolo dipinto in cui un occhio attento potrebbe riconoscere la mano del fornaio. “Accetto il vizio di mia moglie di conservare i vecchi giornali”, “Accetto l’invadenza del vicino”, “Accetto…”
Per il giorno di Natale, l’albero di Bastian è il più ricco, il più bello e il più amato di tutto il paese e le persone sorridono, un pizzico più felici.
Da allora, l’albero di Bastian è diventato una tradizione in quel paese e, se vuoi, puoi andare anche tu ad appendere qualcosa che rappresenti il tuo impegno di accettazione e d’amore per questo Natale. Hai già deciso di che cosa si tratterà?





sabato 29 novembre 2014

Tenerezza di cuore






Tenerezza di cuore

Era già buio da un pezzo, in quella sera di novembre, ma il lavoro di Miriel non era ancora finito.

Si pensa che la vita delle streghe sia un po’ più facile di quella degli altri esseri umani, ma di sicuro non era quello che pensava Miriel, stipata nella metropolitana, mentre guardava ansiosamente l’orologio.
Doveva arrivare al negozio prima della chiusura, per ritirare certe erbe che erano state spedite apposta per lei dall’altro capo del mondo.
L’indomani c’era il convegno annuale delle streghe e avrebbe dovuto lavorare tutta la notte per preparare il suo intervento.
Era importante, perché si trattava di una specie di esame per essere ammessa ufficialmente nella congrega. E poi c’era l’albero di Yule ancora da preparare e gli incantesimi per la luna nuova e quelli per le molte persone in cui si imbatteva e che decideva di aiutare…

Per questo, quando riemerse all’aperto salendo i gradini a due a due e la vide, il primo impulso fu quello di voltarsi dall’altra parte.

Ma non lo fece, naturalmente.
Per essere una strega, Miriel aveva un cuore straordinariamente tenero e questo finiva sempre per cacciarla nei guai.

La bambina si guardava intorno nella piazza affollata.
Indossava stivaletti un po’ troppo grandi e un cappottino da cui sbucava un pezzo di gambotte senza calze. Il visino era tutto raggrinzito in quell’espressione che nei bambini precede immancabilmente il pianto.
Miriel si guardò velocemente intorno. La folla vorticava, indifferente.

Si avvicinò alla bimba.
«Ti sei persa?»
La piccola fece cenno di sì con la testa, tirando su col naso.
“Ok,” pensò Miriel. “Di certo verranno a cercarla.”
Dopo essersi guardata intorno, fece apparire rapidamente un batuffolo di zucchero filato e si rivolse di nuovo alla bambina: «Ti va se aspettiamo insieme che tornino a prenderti?»
Un altro cenno di assenso e già le manine si protendevano verso quel dolce inaspettato.

Sedettero sul basamento di una statua, la bimba indaffarata con lo zucchero filato e la strega intenta a scrutare la folla. Si aspettava di vedere arrivare da un momento all’altro una mamma in preda all’ansia o un papà che si guardava intorno accigliato.
Non successe niente di simile.
Tra un boccone di zucchero e l’altro, la bambina la informò di chiamarsi Ester e di aver perso la zia proprio appena salite le scale della metropolitana.
Ma chi poteva essere così incosciente da perdersi una bambina così piccola?
Passarono forse un paio d’ore così, in attesa.
La piazza adesso era più tranquilla. I negozi erano ormai chiusi e i passanti si erano fatti più radi.
Con un incantesimo, Miriel aveva reso più caldo l’angolino in cui si erano sedute, ma adesso la piccola ciondolava, come se rischiasse di cadere addormentata da un momento all’altro.

Miriel chiuse gli occhi e allargò il più possibile i suoi sensi di strega, per cercare tra i pensieri delle persone l’ansia per una bimba smarrita.
Non trovò niente di simile.
Intanto Ester si era addormentata con la boccuccia aperta, appoggiata alle sue ginocchia.
Miriel sollevò gli occhi e chiamò silenziosamente un gufo suo amico. Zampetto ci mise un po’ ad arrivare, ma era un amico fedele, e arrivò.
Miriel lo pregò di rimanere di guardia, per vedere se fosse arrivato qualcuno in cerca di una bambina e di avvisarla immediatamente in caso di novità. Zampetto volò immediatamente sulla testa della statua e da lì prese a scrutare la piazza, impettito come un generale.

La strega era sicura di aver fatto tutto il possibile e si rialzò. Sollevò delicatamente la bimba addormentata e discese con cautela i gradini della metropolitana.
Una volta a casa, le tolse gli stivaletti e il cappotto e l’adagiò nel letto della camera degli ospiti.
Poi si mise al lavoro. Usò tutti gli strumenti di cui disponeva per cercare la famiglia di quella bimba sperduta, senza successo.
Persino la sfera di cristallo le mostrò solo una fitta nebbia, come quella che si era levata all’improvviso fuori dalle finestre.
Si addormentò al suo tavolo alle prime luci dell’alba, mentre il pensiero di poter chiedere in poche ore l’aiuto di streghe ben più esperte e abili di lei le aleggiava nella mente esausta.

La svegliò un raggio di sole che entrava insieme all’aria fredda dalla finestra del terrazzo spalancata.

Ester, senza cappotto, era intenta a conversare e a dividere un dolce con un uccellino dal petto rosso. Si era infilata un fiore nei capelli e sembrava perfettamente felice e a suo agio.
«Per tutte le salamandre…» si fece sfuggire Miriel osservandola.

Per prima cosa chiamo a rapporto Zampetto, ma il gufetto dagli occhi spalancati la informò che nessuno aveva cercato la bimba. In ogni caso suo cugino gli aveva dato il cambio e si trovava ancora di guardia in cima alla statua.

Non restava che chiedere aiuto alla congrega delle streghe.
In un lampo Miriel fu pronta a balzare sulla sua scopa per andare al convegno.
Per quanto si fosse esercitata, non era ancora molto abile nel volo e non aveva mai volato con una bambina in braccio.
Non stupisce quindi che fosse assai scarmigliata quando finalmente fece il suo ingresso, in spaventoso ritardo, al convegno annuale delle streghe.
Cercando di darsi un tono, avanzò fino al centro della sala, tenendo Ester per mano.
Si rivolse direttamente alla strega più autorevole di tutte, la Saggia Eve, che sedeva al centro delle streghe più anziane e irradiava autorevolezza.
Miriel si schiarì la gola.
«Mie care sorelle» esordì. Ma la vocetta esile si levò al suo fianco: «Ciao zia!»
La Saggia Eve si protese un po’ in avanti prima di rispondere: «Oh, ciao Ester. Hai dormito bene?»
Miriel continuava a passare lo sguardo da una all’altra, quando la Saggia Eve si rivolse a lei.
«Mi dispiace, mia cara, ma la natura della prova finale deve rimanere segreta. Specialmente per le nuove ammissioni alla congrega. A quanto pare la piccola Ester ha deciso in tuo favore. Devo dire che ti sei comportata molto bene, anche se forse si può migliorare un po’ la tua tecnica di volo…»
Emozioni diverse iniziarono a giocare all’autoscontro dentro il petto di Miriel.
C’erano sollievo, rabbia, apprensione e molto altro, che cozzavano le une contro le altre. Ma alla fine il sollievo ebbe la meglio e la giovane strega sorrise a Ester: «Mi hai giocata, streghetta.»

La bimba le rispose con il più soave dei sorrisi, prima di andarsi ad arrampicare in braccio alla Saggia Eve.
 Non rimaneva che festeggiare, e lo fecero. Vi posso assicurare che lo fecero.

Come sempre, l'argomento è stato scelto in base agli spunti più votati sulla pagina FB. 

Buona notte, buone fiabe.


sabato 22 novembre 2014



La fiaba di questo fine settimana è dedicata alle meravigliose amiche creative del gruppo "Piacere di conoscerti".

I doni di Gioia


C’era una gran silenzio, quella sera.
Guardando fuori dalla finestra, Gioia osservò le lanterne che brillavano nella neve, caduta copiosa per tutto il giorno.
Le sembrava di essere caduta in un biglietto d’auguri, tanto tutto era bello e magico. E silenzioso. Come se il tempo si fosse fermato. Si riscosse con un sospiro e tornò al suo lavoro.
Le piaceva dedicarsi ai lavori creativi. Sapeva fare di tutto; ricami raffinati, soffici lavori a maglia, dipinti, restauro di mobili… Quando era immersa nei suoi lavori, la mente taceva e si sentiva tranquilla e felice.
Il lavoro di quella sera erano soffici pantofole di lana che stava preparando per la sua cara amica, come regalo di Natale. Poco più in là, un vecchio sgabello aspettava con pazienza di essere rimesso a nuovo e ornato dal ricamo preparato con pazienza e quasi ultimato…
Nel cestino da lavoro attendevano fili colorati di ogni colore e lane e feltri e perline…
Gioia terminò le pantofole prima di rendersene conto. Soddisfatta, le ripose con cura nella scatola che ornò di nastri colorati.
Un regalo era pronto.
Era ancora presto, quindi si dedicò allo sgabello e al suo ricamo.
Anche quello fu pronto in un batter d’occhio.
E poi fu il turno delle ghirlande per ornare le porte, dei calendari ricamati, delle sciarpe delicate, dei fermaporta a forma di soffici coniglietti, con tanto di vaporosi fiocchi al collo.
Gioia smise di pensare e a un certo punto si guardò intorno stupita. Addossati alle pareti, tutti i lavori che aveva pianificato per il mese era completati e sembravano illuminati da uno strano bagliore.
E la sera non era ancora finita.
Ogni dono trovò posto in una bella scatola e infine Gioia, stanca e soddisfatta, decise di andare a dormire.
Non avrebbe potuto fare altro, in ogni caso.
Aveva finito tutti i materiali che aveva in casa.
Al mattino guardò perplessa la montagna di pacchetti che ingombrava il soggiorno. Come era riuscita a terminare tutto in una sola sera?
Visto che aveva tempo, decise di iniziare a consegnare i suoi doni.
La prima visita fu per l’amica delle pantofoline. La trovò rabbuiata per alcuni problemi familiari, ma accetto di buon grado il dono e la salutò con un bel sorriso.
E così Gioia continuò, nei giorni seguenti, a camminare nella neve per consegnare i suoi doni.
Dapprincipio non voleva crederci, ma chi era triste o preoccupato dopo averli ricevuti sembrava più felice e sollevato.
Con il passare dei giorni, diventò evidente che i doni di Gioia avevano la capacità di portare serenità e gioia ovunque arrivassero.
Inoltre, quando si metteva al lavoro, di sera, per preparare un nuovo dono, immancabilmente finiva in un lampo.
Alla fine ogni persona del paese ebbe il suo dono, persino il panettiere un po’ sgarbato e lo spazzacamino sempre immusonito.
Ovunque si guardasse, si trovavano solo persone felici e sorridenti.
Fu un Natale memorabile, quello.
E la mattina di Natale Gioia trovò davanti alla sua porta un mucchio di doni inaspettati, accompagnati di biglietti affettuosi da parte di tutti quelli che avevano ricevuto i doni di Gioia.
Li portò tutti accanto al camino e li lesse con cura, sorridendo.
Alla fine, si accorse di una piccola scatola senza biglietto. Non aveva proprio idea di chi l’avesse consegnata.
Conteneva un ciondolo con una pietra che brillava come una stella. Rigirandosi l’oggetto tra le mani, Gioia notò una piccola incisione sul retro della pietra. Diceva: “Al prossimo anno.”

Da allora, ogni anno ebbe il dono di portare gioia a tutti, onorando così il suo nome e lo spirito del Natale, e indossò sempre il suo ciondolo misterioso, ben nascosto sotto i maglioni invernali, senza arrivare mai a scoprire chi fosse il misterioso donatore…

  
Buonanotte. Buone fiabe a tutti.

sabato 15 novembre 2014

La tigre

Dopo la più lunga serie di ricadute influenzali della storia, finalmente una fiaba.


La tigre

Il villaggio di C. era appena un gruppuscolo di case sparse in mezzo ai boschi, ma persino lì era giunta notizia della pericolosa tigre che infestava la zona.
Si diceva che potesse assumere sembianze umane e che fosse abilissima a intessere lusinghe per confondere la mente.

Nella casa più isolata di tutte, oltre il crinale della collina, viveva una donna. Non più giovane e non ancora vecchia, si sosteneva preparando rimedi di erbe e raccogliendo quello che la terra le offriva o che lei stessa coltivava nel piccolo campo vicino alla casa.
Pur essendo gentile con tutti, non si legava in particolare a nessuno e quindi si stupì, in quella notte di pioggia, sentendo bussare all’uscio.

Sulla soglia c’era una ragazza avvolta in un abito che sembrava fatto di paglia, fradicia fino all’osso e con un’aria implorante.
- Vi prego, datemi riparo-  la pregò mentre i rivoli di pioggia le colavano dai capelli sul visetto smunto.
La donna la fece entrare senza pronunciare una sola parola. Le indicò la stuoia accanto al fuoco e poco dopo le porse una coperta e una ciotola piena di minestra fumante.
La ragazza ringraziò e divorò la minestra, dopo essersi tolta la strana copertura di paglia e essersi avvolta ben bene nella coperta.
Aveva mani graziose, notò la donna. Con piccole unghie appuntite.
Dopo aver mangiato, la ragazza si accoccolò accanto al fuoco e si addormentò di schianto, come una bestiola esausta.

La donna riattizzò il fuoco, si avvolse anche lei in una coperta e sedette lì vicino, con la schiena appoggiata alla parete.

Ascoltava il rumore della pioggia sul tetto e il respiro regolare della ragazza addormentata.
Passarono le ore.
Il fuoco si spense e la stanza rimase avvolta nell’oscurità, mentre fuori la pioggia continuava a scrosciare.

Nel bel mezzo nella notte, però, ecco risuonare un ringhio sommesso.

La donna rispose con un ringhio a sua volta.

E poi, inaspettatamente, la voce della ragazza.
- Che cosa mi hai fatto?

- Niente di più di quello che è stato fatto a me, figlia mia – rispose la donna senza muoversi.

- Ma io conosco questa voce!
- Per questo, figlia mia, non ti ho parlato prima.
- Che cosa mi hai fatto, madre mia?
- Ti ho dato le stesse erbe che  la strega che abitava qui diede a me, tanti anni fa. Ora sei umana, figliola. Nel bene e nel male, sei umana e lo resterai.
- Perché mi infliggi questa condanna?
- Perché con il tempo ho capito che non è una condanna, ma un dono. Smetterà la voglia di dilaniare e aggredire, col tempo. E gli esseri che incontrerai sul tuo cammino non saranno più prede, per te, ma amici, compagni di viaggio. Non più dovrai vagare da sola, guardandoti dagli uomini. Potrai camminare a testa alta in mezzo a tutti, senza timore per nessuno.

- Ma io ero una belva orgogliosa! Non dovevo temere nessuno, a parte gli uomini.
- Appunto - rispose la donna, levandosi a osservare la prima luce dell’alba.
- Appunto.

sabato 11 ottobre 2014





Ecco la fiaba per il fine settimana. per l'immagine, devo ringraziare Il Castello di Avalon, che ha inondato il web di splendidi fiori. 



La Terra dei Fiori Blu
Stefania guardava fuori dalla finestra, in quel pomeriggio piovoso, e si annoiava.
I pomeriggi piovosi possono essere deprimenti, quando hai solo nove anni e sei a casa della nonna, senza niente di bello da fare.
La nonna si avvicinò e si mise a guardare fuori anche lei.
Sospirarono all’unisono.

- Questa giornata mi ricorda tanto quella in cui visitai la terra dei Fiori Blu – disse la nonna disegnando un cuoricino col dito sul vetro appannato, subito imitata da Stefania.

- Dov’è? – chiese la bimba aggiungendo un altro cuoricino.

- Oh. Nessuno lo sa. Ero una bambina come te, a quei tempi. Un  giorno, stavo vicino alla finestra a guardare la pioggia e la vidi. Una creatura bellissima, leggera, che sembrava fatta di gocce di pioggia. Stava seduta sul ramo di un albero che si vedeva benissimo dalla mia finestra.

- Un albero come quello? – volle sapere Stefania.

- Sì. Proprio come quello. La strana creatura mi fa un cenno, e io apro la finestra. Entrò in casa. La sua sola presenza illuminava la stanza. Aveva ali leggere e trasparenti. Mi strizza l’occhio, mi prende per mano e ci solleviamo in volo.

- E poi?
Adesso la bimba stava disegnando sul vetro il contorno del ramo che vedeva dalla finestra, completamente assorta nel racconto.

- Non avevo paura. In un batter d’occhio mi trovo in cima a una collina che scende dolcemente fino al mare e il terreno è completamente ricoperto di bellissimi fiori blu. 

- Che fiori erano?

- Non l’ho mai scoperto. Fiori come non ne esistono da nessuna parte. La creatura alata mi sorride, e io mi metto a correre e a raccogliere un bel mazzo di quei fiori. Lì non pioveva, sai, c’era un bel sole. Poi mi siedo accanto alla fata (perché mi sa proprio che era una fata) e lei in un istante intreccia due bellissime ghirlande che ci mettiamo sulla testa. Sembravamo proprio due regine. Poi mette i fiori avanzati in un’ampollina di vetro decorata in argento, fa un gesto con la mano e all’interno c’è un liquido blu, luminoso come una notte di luna piena.

Orami sul vetro della finestra, accanto ai cuoricini disegnati con le dita, erano comparsi i rami intricati di un albero, con qualche uccellino posato e fiori. Seduta sul ramo, una figura alata.
La nonna proseguì il suo racconto.

- La fata mi consegna l’ampolla, poi mi prende per mano e mi riporta in volo fino a casa. Io mi ritrovo esattamente dietro la finestra, e fuori piove. penso di aver sognato, ma ho ancora in mano la bottiglietta con il liquido blu. La apro con cautela e…

- Non, nonna. Non ti fermare. Dove stai andando?
La nonna le fece cenno di pazientare e andò a frugare in un cassetto.
- Ma dove l’avrò messa? Ah, eccola qui. Guarda tu stessa.
Con queste parole porse a Stefania un bottiglietta minuscola, contenente un poco di liquido blu che sembrava vibrare di luce.

- Coraggio. Prova. – la incoraggiò la nonna.
Stefania sollevò con cautela il coperchio e si accorse che c’era uno stelo con un cerchio in fondo, come quelli per le bolle di sapone. Se lo avvicinò alle labbra e provo a soffiare.
Ne uscì una bolla di sapone con riflessi blu, grande e perfetta. Ma all’interno della bolla si vedeva chiaramente una fata seduta su un ramo che salutava con la mano.
La bolla si sollevò in alto, in alto, mentre la bambina non la perdeva di vista, affascinata. Poi scoppiò.
Stefania subito ne soffiò un’altra. Dentro a questa vide una collina coperta di fiori blu e una bambina in abiti antiquati che li raccoglieva.

Così, una bolla dopo l’altra, la bimba vide svolgersi sotto ai suoi occhi la storia che la nonna le aveva appena  raccontato.
Quando arrivò all’ultima scena si avvide che il liquido blu era quasi finito e richiuse il coperchio in silenzio.
- Non ti preoccupare- le disse la nonna con una lieve carezza sulla guancia. – Sembra sempre finito, ma ce n’è sempre abbastanza per un’altra giornata di pioggia…

Ormai scendeva la sera e non si vedeva quasi più nulla. Ma, appena prima che calasse il buio, Sefania ebbe l’impressione di vedere una figura lieve, seduta sul ramo, che la salutava con la mano.
    

giovedì 2 ottobre 2014

Dov'era finita la cantafiabe?

Dov’era finita la cantafiabe?


Un po’ di silenzio, c’è stato.
Stavo riordinando le idee e facendo bilanci. Sono passati ormai sei mesi dal fatidico corso be.a.blogger con Chiara Maci e ricordo che ci aveva suggerito di porci obiettivi semestrali, da raggiungere sempre.
Allora bilanci e progetti. Sentire le compagne di corso, per sapere che cosa succede.
Curare le bozze della prima fiaba pubblicata in un’antologia (la trovate su www.giardinodellefate.wordpress.com) e riordinare le emozioni. È stato bello esserci, sapere che la fiaba - la mia fiaba - era stata scelta per la pubblicazione tra tante altre e fare parte di un progetto insieme a persone fantastiche. È stato bello l’impegno per portare un po’ di magia e di fantasia in un mondo che se le sta perdendo per strada. 
Sarete voi a giudicare se, almeno un po’, ci siamo riusciti. 
E poi, nuovi progetti.
Un blog nuovo di zecca, inaugurato proprio oggi, perché è il giorno dedicato agli angeli custodi e spero che porti fortuna.
E infine, sullo sfondo, il lavoro incessante del Tai Chi e la ricerca di equilibrio tra cuore, mente e istinto.
Sembra facile, detto così.
Invece succede spesso che la mente vuole andare da una parte, ma il cuore o l’istinto non ci stanno. O che si scambino le parti.
È un’arte strana, da seguire. Quando funziona, però, è davvero una magia. E allora può succedere di passeggiare in un parco, in un bel pomeriggio di ottobre e di incontrare una farfalla stupenda che gentilmente si posa su una foglia e si presta a fare da modella. muovendo appena le ali.
E all’improvviso sembra che tutto intorno sussurrino le fate, che la magia e l’armonia siano ovunque, solo che a volte ci dimentichiamo come si fa a vederle.



Ma oggi le ho viste, quindi è stato un buon giorno. A cui spero seguirà una buona notte, popolata di fiabe.
Buonanotte. Buone fiabe.

 


mercoledì 1 ottobre 2014

Le coccinelle con l'ombrello




Eccoci!

Vi spiegherò domani il perché del mio silenzio degli ultimi tempi ma, intanto, una fiaba.




Le coccinelle con l’ombrello


Era un’estate piovosa. Piovosa come non se ne ricordavano.
Uomini e animali si lamentavano di quel tempo impietoso che li costringeva a trascorrere lunghi giorni rintanati al chiuso a masticare noia.

- Ma smetterà mai di piovere? si chiedevano i ragni costruendo ragnatele inutili, i bambini guardando gli ombrelloni chiusi sulla spiaggia, gli uccellini nel nido che rimandavano ormai da troppo tempo il loro primo volo.  

Continuava a regnare il buonumore, invece, nella casetta di Madame Coccinella e dei suoi bambini. Lì, mentre una bella torta cuoceva nel forno, i coccinellini si divertivano con mille giochi diversi.
Un po’ giocavano al tiro a segno uno sulla schiena a puntini dell’altro, un po’ giocavano a mimetizzarsi (il che non era facile dato il colore rosso acceso), un po’ leggevano libri di fiabe. Ma i giorni passavano, la pioggia non cessava e i giochi consueti ormai iniziavano a venire un po’ a noia.

Prima che la situazione peggiorasse, Madame Coccinella decise di che era tempo di fare una gita.

- Una gita? Ma piove! provarono a ribattere i piccoli.
- Ebbene, che piova! rispose senza scomporsi la mamma, mentre un grande sorriso le si disegnava sul musetto furbo.
- Ho giusto avuto un’idea…

La vecchia macchina da cucire fu messa all’opera, mentre una bella foglia lucida di magnolia veniva faticosamente portate in casa.
– Su, svelti! sollecitava  Madame, sfregandosi le zampette.

In men che non si dica, ecco confezionati tanti splendidi ombrellini tutti verdi e lucenti.

- E adesso, in marcia!

I ragni smisero di tessere le loro tele per osservare la famigliola, tutta felice e baldanzosa, che se ne andava a spasso per il prato con quegli strani arnesi.   
Ragno Chinotto, che giustappunto stava appeso a riposarsi in un angolo della cucina, rimase tanto sorpreso che ruzzolò dritto nella farina. Ne uscì tutto bianco come una spuma di birra e da quel giorno diventò noto a tutti come Ragno Spuma.
Per fortuna, aveva un buon carattere e non se la prese.

Le coccinelle in fila indiana continuavano la loro marcia, su e giù per i fili d’erba del giardino, e poi con decisione sui rami più bassi della robinia che, vedendo quello spettacolo, iniziò a ridere a più non posso. Avete mai visto una robinia ridere? No? È proprio da non perdere. Le foglioline leggere e i fiori bianchi si scuotono tutti, tanto che alla fine, invece di una albero, sembra di vedere solo una cascata bianca e verde di leggera allegria.

E le coccinelle su su per i rami, quasi impettite con i loro ombrellini ben alti sulla testa.
- Basta, basta. Per carità! implorò infine la robinia.
- Vi regalo volentieri uno dei miei fiori per cappellino. Uno a ciascuno di voi. Basta che scendiate.

E così fu fatto. A ogni coccinella fu regalato un bel fiore, che messo sul capino faceva una gran bella figura. Ma di mollare gli ombrellini, le coccinelle non ne vollero proprio sapere. Saltarono giù dai rami della robinia, spalancando le alucce.

Solo che gli ombrellini le facevano ruotare in modo strano, tanto che giunsero a terra ridendo come matte e vorticando come i semi degli aceri.

Gli uccellini, per guardare quello spettacolo, si sporsero tanto dal nido che ruzzolarono giù anche loro e finalmente provarono l’ebbrezza del primo volo.
Anche i bambini, visto quell’insolito spettacolo, uscirono in giardino sotto la pioggia fine per giocare con le pozzanghere e fare torte di fango.

Fu un pomeriggio pieno di risate e di allegria, quello. Tanto che la pioggia, alla fine, si mise a ridere anche lei e lasciò spazio a un bellissimo arcobaleno.
I giorni di brutto tempo erano finiti, ma l’estate no e tanti altri bei giochi attendevano la famiglia di coccinelle, che però continuò a conservare gli ombrellini dietro alla porta, perché non si sa mai…




giovedì 11 settembre 2014

Il Lago dei Desideri

Il Lago dei Desideri

C’era una volta, tanto tempo fa, una fata insoddisfatta che si chiamava Selenia.
Soffriva d’insonnia, poverina, e di notte vagava irrequieta nei boschi, chiedendosi che cosa le mancasse per essere felice.
Il suo migliore amico era il draghetto Spiffero, che spesso l’accompagnava nei suoi vagabondaggi notturni.
«Ma insomma, che cosa vorresti?» le chiedeva spesso il draghetto, un po’ esasperato.
Ma Selenia non lo sapeva nemmeno lei e così, una notte, Spiffero la guidò fino a un bellissimo lago tranquillo, che scintillava sotto la luna.
«Che posto è mai questo?» chiese la fata impressionata dalla bellezza del luogo.
«Questo è il Lago dei Desideri. Qui si arriva solo nelle notti di luna piena e la notte non trascorre fino a quando non si è espresso almeno un desiderio. Rimarremo qui fino a quando non avrai capito che cosa ti manca per essere felice e poi non ne parleremo più.»
«Ma quanti desideri posso esprimere?»
«Dopo il primo, il tempo riprende a scorrere normalmente e bisogna allontanarsi prima dell’alba. Ma fino a quel momento puoi esprimere tutti i desideri che vuoi.»
La fata batté le mani contenta e si accomodò sulla riva, ragionando tra sé e sé.
Che cosa avrebbe potuto chiedere? Voleva pensarci proprio bene.
Interrogò il suo cuore.
Le sarebbe piaciuto proprio tanto chiedere la felicità per tutte le creature del mondo.
“Così,” pensava, “potrei imparare come essere felice osservando gli altri.”
In quel momento un coniglietto del colore della luna le passò saltellando vicino. Così si rese conto di essere già circondata da creature felici. E poi capì anche che, senza nessuna traccia d’infelicità, anche la felicità avrebbe perso sapore. “Non si può comprendere la luce, se non si conosce il buio,” ragionava la fata.
Avrebbe potuto chiedere la capacità di guarire all’istante tutte le malattie… ma poi che ne sarebbe stato di tutti coloro che si guadagnavano da vivere curando gli altri?
 Sospirò e si distese, continuando a interrogarsi.
Il tempo non scorreva, in quel luogo e la fata continuò a pensare e pensare fino a trasformarsi in un masso.
Spiffero le svolazzava intorno, alquanto preoccupato. Adesso Selenia era diventata una fata di pietra.
 «Oh, povero me!» borbottava tutto agitato il draghetto, cercando di riscuoterla.
Ma la fata di pietra rimaneva immobile e silenziosa.
Impossibile dire quanto tempo non trascorse, in quella situazione sospesa, ma alla fine spiffero non riuscì più a trattenersi e sbottò con voce forte e chiara: «Desidero che la fata si risvegli!»
Selenia emerse all’istante dalla sua forma di pietra, stiracchiandosi e sbadigliando.
«Ma da quanto tempo siamo qui?» chiese al suo amico drago, per la verità notando che le sembrava alquanto cresciuto.
Era impossibile dirlo, visto che per tutto il tempo in cui la fata era rimasta indecisa il tempo aveva smesso di scorrere in quel luogo.
Ma all’improvviso alla fata venne una gran nostalgia del suo bosco e del suo comodo lettuccio.
Il tempo aveva ripreso a scorrere e la fata espresse l’unico desiderio che in quel momento le sembrava possibile.
«Desidero che le cose vadano un po’ meglio per tutti. Non grandi cambiamenti, visto che non so ragionare in termini assoluti. Solo un po’ meglio di adesso. E la prossima volta, chiederò che vadano un po’ meglio ancora…»
Così, espresso finalmente il suo desiderio, Selenia tornò insieme a Spiffero nel suo bosco, e per la prima volta dopo tanto tempo si sentì un po’ più felice, pensando che alla prossima luna piena…




Vi chiedo perdono per la breve assenza. Anche i Cantafiabe ogni tanto devono tornare con i piedi per terra. 
Ma sono di nuovo qui, ad augurarvi buonanotte e buone fiabe...

lunedì 1 settembre 2014

Lo spray antimostri

Lo spray antimostri


A Sabina e Giulio la nuova casa piaceva moltissimo. C’era un bel giardino e, per la prima volta, una camera per ciascuno. Fino a quel momento avevano dovuto dividere la stessa stanza, in una baraonda di automobiline e bambole, libri e quaderni di scuola.
Adesso, finalmente, Sabina si guardava intorno sospirando nella sua cameretta nuova.
La mamma le aveva già dato il bacio della buonanotte e la luce era spenta, ma la luna piena entrava dalla finestra e le permetteva di vedere tutto.
C’era un odore strano, nella nuova casa.
Poi, un’ombra.
Sabina guardò velocemente verso la finestra. Qualcosa si era mosso, ne era sicura. Rimase ferma nel suo lettino ancora un po’.
Di nuovo quella strana ombra…
- Mammaaaaaa!
I passi della mamma, la porta che si apriva lasciando entrare la rassicurante luce del corridoio.
- Mamma, c’era un mostro!
- Non c’è nessun mostro, piccola. Stasera c’è un po’ di vento che fa muovere i rami degli alberi del giardino e tu non sei ancora abituata a questa casa nuova.
- Posso dormire con Giulio?
- Ma come? Eri così contenta di avere una camera tutta per te…
La mamma si avvicinò alla finestra, la aprì e guardò fuori inspirando l’aria fresca.
- Va tutto bene, cara. Stai serena.
Un altro bacio della buonanotte, una carezza, la porta nuovamente chiusa e il suono dei passi della mamma che si allontanavano.
Sabina rimase a letto impietrita. Non riusciva proprio a dormire, con l’idea di quel mostro che, ne era certa, si aggirava in giardino.
SBAM! La finestra si spalancò di colpo e Sabina, con il cuore che batteva all’impazzata, si precipitò nella camera di Giulio.  
Suo fratello era a letto, ma nemmeno lui dormiva.
- Che cosa c’è? chiese vedendola entrare.
- C’è un mostro in giardino.
- Sì. L’ho visto. Ma qui non si può avvicinare.
- Perché?
- Perché io ho uno spray antimostri!
Giulio tirò fuori una bomboletta dall’aria misteriosa.
- Come funziona? chiese la sorella accomodandosi sul letto.
- Basta spruzzarlo e li tiene lontani. Così.
Giulio schiacciò il pulsante, e una nuvoletta profumata fece pizzicare il naso di Sabina. Sapeva di budino alla vaniglia e di altre cose buone e dolci.
- Ma sei sicuro che funziona?  
- Sicurissimo.
La bimba prese in mano la bomboletta e la osservò attentamente. C’erano delle scritte, ma lei non sapeva ancora leggere.
- Di’, me lo presti?
- Solo questa sera. Domani, vai a prenderne uno tutto tuo.
- E dove?
- Io l’ho preso in un negozio che a volte scompare, vicino alla scuola. Certi giorni, passi e c’è solo un vecchio negozio vuoto e polveroso. Certi giorni, sembra tutto nuovo, è pieno di cose interessanti e vorresti comprare tutto…
Alla fine lo spray antimostri fu usato anche in camera di Sabina, che non ebbe più problemi nella nuova casa, anche se non le riuscì mai di trovare quel famoso negozio vicino alla scuola.
Almeno fino a quando non andò a scuola anche lei, ma questa è un’altra storia…

Perla e il lupo

Perla e il lupo

C’era una volta un regno in cui abitava una fanciulla di nome Perla.
La giovane viveva con il vecchio padre e ogni giorno andava per i boschi a raccogliere legna e bacche. La gente del villaggio le diceva sempre di non farlo, poiché era stato avvistato nei dintorni un grande lupo, ma Perla aveva un cuore coraggioso e faceva di necessità virtù.
Durante una di queste ricerche, affascinata da una pianta di bacche rosso rubino e con un profumo paradisiaco, non badò a dove metteva i piedi e precipitò in una grande buca.
Stranamente cadde su qualcosa di morbido. Si rialzò lesta e si guardò intorno.
La buca era molto profonda e la cosa su cui era caduta sembrava un ammasso di pelliccia.
Si avvicinò per toccarla e quella guaì piano. Il sole stava rapidamente calando, ma nella penombra la fanciulla si accorse che doveva essere un animale ferito.
Iniziò quindi ad accarezzarlo e a parlare dolcemente, cercando di rassicurarlo.
“Non temere, amico, mio. Adesso è buio, ma vedrai che domani ci troveranno e ci tireranno fuori da qui.”
A tastoni trovò la fiaschetta dell’acqua che portava sempre con sé, se ne versò un po’ sulla mano e offrì da bere al suo compagno di prigionia. Poi continuò a parlargli e accarezzargli la pelliccia fino a cadere addormentata. Potete immaginare il suo stupore quando, svegliatasi alle prime luci dell’alba, si accorse di avere trascorso tutta la notte appoggiata a un enorme lupo dal manto bianco!
Il lupo le parlò: ”Non avere paura. Tu sei stata gentile con me e io lo sarò con te. Adesso salimi sulla schiena, così potrai uscire.”
Così dicendo il lupo appoggiò le sue zampe alla parete della buca e Perla, arrampicandosi sulla sua schiena, riuscì infine a liberarsi.
“Adesso vado a cercare aiuto,” disse subito al lupo appena fu libera.
“Allora vuoi la mia morte,” rispose quello. “Se mi trovano mi uccidono. È da tempo che mi danno la caccia.”
Perla si guardò intorno, e vide il tronco di un albero caduto. Riuscì a farlo rotolare fino alla buca e con uno sforzo ne fece cadere un’estremità all’interno, mentre l’altra rimaneva appoggiata sul bordo. Servendosi di quella sorta di ponte improvvisato, ben presto anche il lupo fu libero.
Per ricompensa condusse Perla fino a una tana segreta e le donò un sacco pieno di perle e di pietre preziose dicendo: “Io non dimentico mai chi mi è stato amico. Accetta questo dono e sappi che, ogni volta che mi chiamerai, io verrò da te.”
La giovane lo ringraziò calorosamente e tornò a casa, felice di poter dire al padre che le loro preoccupazioni erano finite.
Con le pietre preziose si garantirono una vita agiata e la ragazza prese l’abitudine di adornarsi ogni giorno con le perle più belle.
Ma un giorno che la regina passava in carrozza vicino alla sua casa, vide la bella fanciulla indossare quelle perle magnifiche e si adombrò. “Com’è possibile che i miei sudditi più modesti abbiano ornamenti più belli e preziosi dei miei?” si chiese piena di invidia.
Così, appena tornata al castello, diede ordine di andare a catturare la ragazza, di spogliarla dei suoi ornamenti e di gettarla nelle segrete.
Le guardie stavano giusto per condurla via, quando Perla si ricordò di chiamare il lupo e quello arrivò in un batter d’occhio, caricandosela sul dorso e dileguandosi nei boschi.
La condusse in una tana spaziosa, dicendole che poteva rimanere fin che voleva, ma la ragazza rifiutò. Non si dava pace per aver abbandonato il suo vecchio padre e si pentiva di essersi attirata per vanità le ire della regina.
“Lascia fare a me,” le disse allora il lupo bianco.
Nel cuore della notte prese una bellissima collana di perle e si avvicinò al castello.
“Ho fatto uno strano sogno,” disse la regina al re al risveglio. “Ho sognato che qualcuno mi lasciava in dono qualcosa sul davanzale della finestra, dicendo che era per la persona più generosa e magnanima del regno.”
“Infatti qui c’è una collana di perle,” disse il re affacciandosi alla finestra.
Così andò avanti per un bel pezzo. Ogni notte il lupo bianco lasciava un oggetto prezioso per la regina, e ogni notte lei sognava che qualcuno la lodava per la sua generosità, per la sua mancanza d’invidia, per la sua capacità di perdonare, per la sua bellezza…
In capo a un mese, la regina si era davvero convinta di essere generosa e di buon cuore, al punto che decise di dare una grande ballo per offrire il suo perdono a tutti coloro che l’avevano offesa.
“Questa è la tua occasione,” disse quindi il lupo a Perla. Le procurò un abito magnifico e le fece indossare le perle più belle. La fanciulla si recò al ballo ed era così bella che il principe subito se ne innamorò e la chiese in sposa.
La regina non ebbe niente da ridire, anzi, ne fu contenta.
Il vecchio padre di Perla fu invitato a vivere a palazzo con loro e vissero per sempre in salute e in letizia.
 

   Una fiaba nata da un'immagine di Facebook. Buona lettura!

mercoledì 20 agosto 2014

La Terra dei Bardi



Le fiabe sono tornate!


La terra dei Bardi


Era una notte buia e tempestosa, quando il bardo entrò nella taverna del Calice e la Spada.
L’oste, vedendo il mantello, non poté trattenere un gemito. Era tradizione offrire ospitalità ai bardi erranti, solitamente sprovvisti di che pagare,  e grandi sventure attendevano chi non avesse rispettato le usanze.
Si apprestò quindi ad accogliere l’ospite.
“Benvenuto nella nostra umile taverna, eccellentissimo Bardo. Che cosa possiamo fare per voi?”
Il ragazzo sembrava molto giovane, ma aveva nello sguardo una saggezza antica che incuteva rispetto. “Un piatto di minestra e un posto accanto al fuoco per asciugarmi saranno più che sufficienti, mio buon oste.”
L’oste, si affrettò in cucina dopo aver fatto accomodare il bardo a un tavolo accanto al fuoco.
Il brusio della sala, che si era affievolito all’ingresso del nuovo arrivato, era ripreso più forte di prima. Tutti aspettavano di sentire le novità portate dal bardo errante.
“Venite da molto lontano?” chiese l’oste ponendogli davanti un piatto di minestra fumante.
“Ho da poco terminato la mia formazione nella Terra dei Bardi,” rispose il giovane affondando il cucchiaio nella minestra.
Un brusio deluso si sparse tra i presenti. Era solo un novellino, dopotutto.
“E dove si trova questa terra?” insisté l’oste, “Non ne ho mai sentito parlare...”
“Molto, molto lontano da qui,” rispose il ragazzo indicando vagamente con il cucchiaio verso ovest. “Oltre dieci catene montuose, intervallate da altrettante terre abitate.”
“Sembra molto distante,” intervenne a quel punto un avventore seduto lì vicino, mentre nella taverna scendeva un silenzio carico di attese. Solo un ubriaco continuava imperterrito a cantare a squarciagola in fondo alla sala, ma fu subito zittito con un potente cazzotto che lo fece stramazzare su una panca. 
Oh, di sicuro avevano insegnato bene, a quel giovane.
Ora che aveva l’attenzione di tutti i presenti, si attardò a soffiare sulla sua minestra, mentre gli altri osservavano impazienti ogni sua mossa.
Quando il pomo d’Adamo indicò che la minestra era stata ingollata a dovere, un uomo con una folta barba rossa lo incalzò: “Raccontate, dunque!”
“Fu il Druido del villaggio, a decretare il mio destino quando ero solo un fanciullo, vedendo che ero in grado di ripetere parola per parola ogni racconto udito. Il mio nome è Glyndwr. Fui mandato quindi a studiare nella Terra dei Bardi, molto distante da qui, dove per anni ho appreso tutti i racconti e tutte le tradizioni del nostro popolo. In quella terra si formano tutti i bardi che poi viaggiano nel mondo. Non c’è storia che non ci venga insegnata e veniamo istruiti anche nella musica e nel canto. Ma sono le storie antiche, quelle su cui i maestri insistono di più. Li si prendono cura di giovani provenienti da ogni parte e l’aria stessa è intessuta di storie e racconti. Io ho completato in fretta i miei studi, in dieci anni appena, e adesso viaggio per il mondo, come è tradizione per noi.”
“Ma le terre che avete attraversato?” chiese l’oste sedendosi di fronte al bardo. “Che cosa avete visto?”
Seppur così giovane e inesperto, ho già visto molte meraviglie. Ho attraversato monti ricoperti di ghiaccio, di cui uno completamente ammantato di ghiacciai rosa, si dice per una strana pianta che cresce solo lì. Ho conosciuto dame di una bellezza abbagliante e cavalieri in grado di affrontare dieci nemici con una mano sola, ma nessuno coraggioso come il Lord della Terra dei Bardi, che combatté contro ben quindici draghi, nei suoi tempi migliori. E nessuna dama che ho visto fin qui, per quanto bella, ha potuto eguagliare la grazia e la dolcezza di sua figlia  Gwenhwyfar. Oh, se solo poteste vederla! I suoi capelli sono d’oro vivo e i suoi occhi risplendono del verde delle praterie in primavera. Ogni suoi gesto è infuso di una grazia fatata e la sua voce cristallina sembra lo scorrere di un ruscello di montagna…”
Le parole del giovane bardo si spezzarono, a quel punto, mentre i suoi occhi azzurri si perdevano lontano.
“E adesso starete cercando un Lord che vi prenda con lui…” azzardò l’oste per spezzare quel silenzio.
Il giovane si riscosse e si guardò intorno scuotendo il capo. “No, signore. Non io… Mi hanno ordinato di camminare dritto davanti a me, ed è quello che farò fino a quando non riuscirò a tornare nella Terra dei Bardi, e dalla bella  Gwenhwyfar che mi ha rapito il cuore!”
“TI ha proprio stregato!” commentò l’oste con una risata e una poderosa pacca sulla spalla, versandogli un bel bicchiere di vino speziato, mentre gli altri avventori allungavano i bicchieri per averne anche loro.
Fu una lunga notte, quella. Colma di racconti e di vino. Ma all’alba, dopo essersi avvolto nel mantello, il giovane bardo si rimise in cammino, per percorre la lunga strada che ancora lo separava dalla Terra dei Bardi e dalla bella Gwenhwyfar.

lunedì 11 agosto 2014

Lettera dal mondo incantato

Lettera dal Mondo Fatato

Siamo noi, siamo noi che lavoriamo instancabili per far sbocciare i fiori, per far spuntare le foglie, per far crescere gli alberi. Il nostro lavoro è per donare ombra e frutti, per far scorrere le acque fresche e illuminare di mille bagliori le piccole polle tranquille.
Siamo noi che leniamo con una carezza il dolore degli animali feriti o sofferenti, che ricamiamo i prati di brina e rugiada nelle notti fresche, che chiamiamo la brezza ad asciugarvi la fronte nella calura estiva.
Siamo noi che mandiamo una farfalla a volarvi vicino quando non sapete più vedere la bellezza che vi circonda e che arriviamo silenziose nella notte a dissipare con un frullo d’ali i vostri sogni peggiori.
Siamo noi che accendiamo le lucciole e la speranza nei vostri cuori, che spargiamo polvere fatata sui vostri desideri, affinché possano volare sempre più in alto.
Mai, mai il Piccolo Popolo ha chiesto una ricompensa maggiore di una risata cristallina, di uno sguardo pieno di stupore e meraviglia, di un piccolo spazio in cui danzare e di un po’ di rispetto.
Ma è giunto il tempo per chiedere il vostro aiuto, perché poche sono le fate e molti gli uomini, in questi tempi oscuri.
Uomini che devastano, che infieriscono contro i più deboli, che si comportano con crudeltà verso chi non può difendersi. 
Abbiamo bisogno di esseri di buona volontà, per distribuire gioia e pace, ovunque ve ne sia bisogno.
Abbiamo bisogno di aiuto per tenere in vita i boschi, le spiagge, gli animali.
Non noi, ma i nostri doni sono in pericolo.
Per secoli e secoli, vi abbiamo insegnato pazientemente a far crescere piante fiori, a prendervi cura dei più deboli e dei piccoli e grandi animali che popolano il mondo.
Vi abbiamo insegnato a coltivare la bellezza e l’armonia che spalancano il cuore, l’importanza di un piccolo gesto d’amore per quanto vi circonda.
Una ciotola d’acqua per un animale assetato, una manciata di semi per un volatile stremato, un fiore coltivato con amore, l’amicizia profonda che può legare a un cane o a un gatto sono preziosi, ora.
Le fate hanno bisogno d’aiuto, ma basta un piccolo gesto di ognuno di voi per fare molto.
Chi risponderà all’appello?
Chi sarà al nostro fianco perché il vostro mondo continui a essere così meraviglioso?
Oggi è il giorno della scelta. Proprio oggi si decidono le sorti del futuro.
Le fate saranno accanto a chi vorrà aiutare. Le fate lo vedranno. Le fate ringrazieranno…


domenica 3 agosto 2014

La stella cadente

La stella cadente

Era una fredda notte di dicembre, una di quelle notti in cui anche il cielo sembra fatto di ghiaccio trasparente.
Le stelle brillavano gelide, come dietro uno spesso vetro.
E in quel cielo, appunto, una stellina attaccata male  si reggeva come meglio poteva e guardava giù, alla città di Assisi, con le sue stradine senza tempo.
Laggiù, minuscoli in quella distesa di freddo, un uomo e una donna guardavano stupiti a naso in su la volta celeste, stranamente piena di stelle.
Erano sposi da poco e in cerca di presepi, che però ancora non erano pronti, perché mancava ancora troppo tempo a Natale.
Guardando le due figurine, la stella si sporse un po’ troppo e di colpo cadde in quel cielo da presepe, lasciandosi dietro una scia d’oro.
La donna che la osservava fu veloce a formulare un desiderio e la stella lo udì: “Un bel bambino…”
Ma ovviamente in quel momento la stella aveva altro a cui pensare. Cadde a testa in giù, tra le dolci onde delle colline e per il gran colpo perse la memoria.
La stellina si risvegliò che ormai era giorno, con un gran mal di capo e la sgradevole sensazione di dover fare qualcosa di importante.
Già… ma che cosa?
“Boh, mi verrà in mente…” pensò la stellina rialzandosi tutta ammaccata e guardandosi intorno. C’era molto da scoprire, per qualcuno abituato al silenzio del cielo. Sulla terra, la vita era chiassosa, piena di gente, di colori e di movimento.
La stellina vagò a lungo, attratta da sensazioni sconosciute, nuovi luoghi e persone, fino a quando, nel suo vagabondare, arrivò sulla riva del mare.
Alla stellina piacque moltissimo, così azzurro e immenso. “Sembra il mio cielo,” pensò istintivamente, colta da un’onda di malinconia.
E così si ricordò di quando era appesa lassù, tra le compagne che le raccomandavano “Reggiti. Reggiti forte. Non è ancora il tempo per le stelle cadenti.”
Il tempo delle stelle cadenti! Ora ricordava. C’era una notte dell’anno in cui le stelle si lanciavano a frotte giù dal cielo, ridendo come matte.
E le persone laggiù le guardavano e affidavano a quelle stelle i loro desideri.
Ma quando era quella notte?
“Pensa, stellina, pensa!” si incoraggiò da sola. Ma la sua testolina ammaccata non voleva proprio ricordare. Così passò molto tempo, fino a quando, in una sera d’estate si trovò a passeggiare di notte sulla spiaggia e si accorse che era piena di gente a naso in su.
“Ne ho vista una!” esultava qualcuno. “Dai, dimmi che cosa hai desiderato!” esclamava un altro. “Non posso, perché se te lo dico poi il desiderio non si avvera.”
 La stellina guardò in su. Eccole lì, le sue compagne, che si lanciavano giù una dopo l’altra, lasciandosi dietro lunghe scie d’oro.
“Come vorrei ricordare,” pensò la stellina proprio mentre una bella stella attraversava il cielo.
La stella cadente la guardò e immediatamente la stellina ammaccata ricordò tutto. Le due figurine nel gelo di dicembre, la caduta, la donna che chiedeva “Un bel bambino…”
Santo cielo! Doveva sbrigarsi! C’era un desiderio da esaudire. Si unì alla folla di stelle cadenti affaccendate per esaudire i desideri, ma non aveva proprio idea di dove andare a trovare quella coppia. Per fortuna, le stelle cadenti hanno alcuni poteri magici e alla fine la stellina fece bene il suo dovere.
Per ricompensa, le fu concesso di tornare in cielo. Attaccata per bene, questa volta.
Da allora ogni anno, così vicino alla notte delle stelle cadenti, lei guarda giù per ammirare gongolante quello che è stato davvero un bel bambino, e che poi è diventato un giovanetto e un giovane uomo, e che anche in onore della “sua” stella cadente porta il nome di Lorenzo.
Ogni anno, lei si unisce ai suoi cari per fargli gli auguri di buon compleanno e ogni anno i suoi cari alzano gli occhi al cielo per ringraziare ancora una volta la stellina attaccata male del meraviglioso desiderio esaudito.


Auguri Lorenzo!


venerdì 1 agosto 2014

La porta del mare




La porta del mare

La città era entrata in quella specie di sonnolenza tipica di agosto e Stefania ne approfittava per fare due passi durante la sua pausa pranzo.
I negozi, ormai, erano quasi tutti chiusi e il traffico era davvero poco. Così, camminava senza meta tra viottoli e stradine, senza nemmeno rendersi conto di dove la stavano portando i suoi passi.
Si riscosse solo quando arrivò in un cortile trasformato in giardino, chiuso in fondo da una porta azzurra.
Si avvicinò alla porta, che l’attirava come una calamita senza un perché. Era una vecchia porta consunta, con il legno un po’ gonfiato dalle piogge e dall’umidità.
Stefania provò la maniglia, che scese docile cigolando un po’, ma la porta non si apriva. Non servì nemmeno una spallata decisa. Solo allora Stefania si accorse di un rampicante con un delizioso fiorellino azzurro a campanella che cresceva sullo stipite.
Possibile…?
Perché no, si disse, prima di scuotere il fiorellino, che liberò una polvere dorata luccicante. Immediatamente la porta azzurra si aprì.
Stefania capì tutto prima ancora di vedere, dal suono sommesso e dall’odore salmastro che le accarezzava il viso.
Oltre la porta, sconvolgendo tutte le nozioni di geografia e di buonsenso, c’era il mare!
Un mare cristallino che si cullava pigro sul bagnasciuga di una spiaggia da paradiso.
Stefania si tolse le scarpe e avanzò sulla sabbia bianca.
Intorno, non si vedeva nessuno. Solo alcuni alberi avanzavano a delimitare quell’angolo di paradiso deserto, con il mare che si perdeva all’orizzonte.
Stefania era sbalordita. Era più che sicura che, se la sua città si fosse affacciata sul mare, lei lo avrebbe saputo.
Una brezza gentile la riportò alla magia di quel luogo e Stefania si sdraiò sulla sabbia. Peccato non avere un costume e un telo!
Ma era comunque piacevole, stare lì a godersi il sole sul viso, la brezza marina profumata di alghe e la vista aperta fino all’orizzonte.
Con la mano sfiorò qualcosa di strano. Una bellissima conchiglia  rosa, quasi del tutto seppellita vicino a alle onde delicate in cui Stefania teneva immersi i piedi.
La liberò con pazienza e ci soffiò su per liberarla dagli ultimi granelli di sabbia. E la conchiglia suonò. Un suono mai sentito, una sorta di sospiro di vento e campanelli.
Stefania giocò un po’ con quel suono, prima di accorgersi che adagiati accanto a lei c’erano un telo e un costume da bagno. Le sembrò naturale cambiarsi al riparo del telo, e poi fare una nuotata paradisiaca in quel mare che sembrava tutto per lei.
Non si vedeva nemmeno una barchetta, nessun bagnante.
Stefania non aveva paura. Era una buona nuotatrice e si immerse tranquilla nell’acqua fresca, spostandosi con bracciate pigre e regolari. Quando fu stanca, si stese sul telo per asciugarsi.
La riscosse, dopo chissà quanto, una risata che sembrava provenire dal mare. 
Figure in lontananza giocavano tra le onde, ma controluce era impossibile distinguerle bene. Ma era una lunga coda, quella che aveva visto guizzare nell’acqua?
Impossibile dirlo. Le figure si allontanarono, tra risa e spruzzi, e Stefania ricordò all’improvviso che doveva tornare al lavoro. Infilò gli abiti direttamente sul costume, che ormai era asciutto e si precipitò fuori dalla porta azzurra, fuori dal cortile trasformato in giardino. Ma dove si trovava?
Nell’ansia di ritrovare in fretta la strada dimenticò di osservare i dintorni.
Dopo un lungo vagare trovò una via familiare e infine, in ritardo, il luogo di lavoro.
Alla collega che le chiedeva “Ma dove sei stata?” rispose semplicemente sorridendo “Al mare!” e intanto  accarezzava la conchiglia rosa che aveva infilato in borsa.
Cercò a lungo la Porta del mare, in seguito, senza trovarla.
Eppure, ne era certa, un giorno o l’altro i suoi passi l’avrebbero riportata davanti a quella soglia prodigiosa.

giovedì 31 luglio 2014

In cerca di linfa

In cerca di linfa

La pausa estiva è un’ottima occasione per scoprire un tempo per giocare e ricaricarsi. Anche per chi rimane in città a lavorare, non è difficile approfittare del minor traffico e delle giornate più lunghe per… ricaricare le proprie energie creative.
Perché, sì, vanno ricaricate anche quelle.
Non conosco nessuno in grado di andare avanti a produrre e produrre senza almeno un minimo di contropartita. Julia Cameron è categorica: secondo lei ci vorrebbero almeno due ore la settimana, da segnare in agenda come un impegno importante.
In una vecchia intervista il cantante Zucchero diceva che per scrivere le sue canzoni prima si riempie di vita, fino quasi a scoppiare.
Natalie Goldberg parla di un più sfumato “fare il compost”, nel senso di lasciar sedimentare impressioni e sensazioni in modo da renderle terreno fertile per nuove produzioni.
Il concetto è lo stesso: ci vuole linfa per produrre.
So che può non essere semplice trovare il tempo, ma se le vacanze e i ritmi estivi vi aiutano, provate a ritagliarvi un piccolo spazio per giocare e sognare.
La linfa, è diversa per ognuno di noi. L’importante è che vi piaccia, che sia qualcosa di nuovo e che ci sia l’abbandono del gioco, la sensazione di poter scoprire e sperimentare.
Parleremo della ricerca della “vena d’oro” di quelle cose che ci piacciono più delle altre, ma intanto, anche questo ci darà qualche indizio.
Per alcuni è linfa visitare un museo o una mostra. Per altri è trascorrere qualche tempo in mezzo alla natura, fosse anche un parco cittadino. Per alcuni è ascoltare musica, per altri è andare a fare un giro in un negozio di giocattoli e lasciarsi tentare da pastelli colorati, porporine, stelline e altri piccoli oggetti a buon mercato.
E poi?   E poi si gioca. Si possono seccare fiori e foglie in una pressa, riscoprire il piacere di intrecciare ghirlande con fiori di campo, si può giocare con un animale incontrato per caso. Un altro modo semplice per giocare è quello di sfogliare vecchie riviste e strappare via le immagini che colpiscono di più la fantasia, senza starci troppo a pensare. Poi si possono comporre in un collage o tenere semplicemente da parte, per vedere che cosa ci suggeriscono. Molto spesso si trovano indizi di storie, desideri inespressi, tracce della vita che vorremmo…
Io tengo appositamente vecchi quaderni o vecchie agende, che trasformo in spazi per giocare e sognare. Ci sono disegnini fatti con penne luccicanti, pastelli e matite colorate, adesivi, ritagli di immagini, frasi che mi hanno colpito… sono luoghi disordinati, giocosi, senza né capo né coda. Però, quando sono in cerca d’ispirazione e li sfoglio, qualcosa trovo sempre.
E soprattutto è prezioso il (poco) tempo che posso dedicarci, perché per quel tempo non ci sono preoccupazioni per il futuro o rimugini sul passato. Lo scopo è anche questo. Da questi tempi sospesi e di gioco si torna con nuove energie, nuove idee.
I bambini lo sanno, e infatti quando giocano lo fanno con tutta l’attenzione del caso. Qualunque sia la vostra età, non dimenticavi di giocare almeno un po’. Dicono che non si è mai troppo vecchi per un orsacchiotto e quello dell’immagine è venuto a ricordarmelo pochi giorni fa.
Vi auguro di giocare tanto e di divertirvi tanto. Se potete, tenete traccia di quello che vi colpisce, che vi piace, che vi stuzzica. Anche un piccolo taccuino da portare con sé in queste esplorazioni può essere un alleato prezioso. Magari l’unica cosa che vi colpisce è l’insegna strana di una negozio, ma voi segnatevela.
Vedrete, poco a poco questi momenti a caccia di linfa diventeranno irrinunciabili e preziosi.
 

venerdì 25 luglio 2014

Angela e le volpi



Angela e le volpi

Nadia, solo ieri mi hai chiesto una fiaba: eccola. Ti piacerà, ma non l’ho inventata. È assolutamente vera.

Angela e le volpi

C’era una volta una donna felice di nome Angela. Era piena di entusiasmo e di idee, sempre impegnata in mille cose diverse. L'unico suo rammarico era di non aver avuto figli, ma alla fine aveva riversato il suo amore sui suoi nipoti, su suo marito e su una casetta in mezzo al bosco in cui trascorreva le vacanze.
Io ho sempre sotto gli occhi questa foto di Angela, scattata proprio in quella casetta, che mi piace tanto per quel sorriso radioso e senza ombre, da persona in pace con la vita.
Nella foto non si vede, ma l’Angela che ho conosciuto io aveva i capelli di un bel rosso pieno, come il manto delle volpi.
Dopo una vita lunga, tanto amore e tanti viaggi, Angela un giorno è volata in cielo.

Non più di due settimane fa ho accompagnato qualcuno fino a quella casetta nel bosco e mi sono imbattuta in una volpe. L’animale mi ha fissato un istante con quel suo musetto appuntito prima di voltarsi e dileguarsi tra gli alberi. Chi era con me, sa bene che mi sono rammaricata per tutto il giorno di non essere riuscita a scattarle almeno una foto.
In qualche modo, la voglia di quell’immagine di volpe è rimasta con me fino a ieri sera, quando ho pubblicato il post con la donna addormentata tra le volpi (tre volpi, per la precisione) che vedete qui sotto.
Dopo un po’ di tempo, ho posato lo sguardo sul post e mi sono ritrovata a rabbrividire, piangere e sorridere tutto insieme.
Come tutti possono vedere, i primi tre “Mi piace” sul post sono stati messi da tre persone diverse, ma con lo stesso nome di battesimo: Angela, Angela, Angela.

Non so quante probabilità ci sono che un “caso” del genere si possa verificare, ma per me è un Segno. Ormai dovrei essermi abituata alle magie che si verificano quando ci sei tu nei paraggi, amica mia, ma questa per me è un promemoria della magia che vive in noi tutti e un bellissimo messaggio di Speranza, che spero raggiunga tutti coloro che in questo momento ne hanno bisogno.

Namasté, amica mia.
Namasté a tutti gli amici.
Namasté Angela.







 Ecco qui sotto la pagina Facebook della Disfida delle Fiabe con i primi tre mi piace in evidenza.
Sull'immagine c'è la frase di Antoine de Saint-Exupéry:
 Le favole sono fatte così.
Una mattina ti svegli e dici: ‘Era solo una favola…’
Sorridi di te.
Ma nel profondo non sorridi affatto.
Sai bene che le favole sono l’unica verità della vita. ...
E allora riparti con "c'era una volta..."



martedì 22 luglio 2014

Scrivere e raccontare per stare meglio



Scrivere e raccontare per stare meglio

L’interesse per le proprietà curative del racconto e della scrittura sta crescendo, a giudicare dal proliferare di questi temi anche in edicola.

Il primo spunto interessante viene dalla rivista Bio – Corpo Anima Mente (sul web  http://www.biomag.it) con un servizio sui benefici della scrittura terapeutica intitolato Scrivere per stare meglio e pubblicato sul numero 16 di luglio-agosto
Il servizio esamina diversi tipi di scrittura, che si tratti di  diario, registrazione dei sogni, scrittura libera, veloce o a tema. C’è poi lo strumento delle lettere da non inviare, ma in cui riversare i propri sentimenti mai chiariti per persone importanti della nostra vita.
Per ogni tipo di scrittura è spiegato come fare per ottenere i maggiori benefici.
Tra i consigli comuni: concentrarsi sull’intenzione e essere costanti.
L’elenco dei benefici della scrittura terapeutica è piuttosto lungo, ma tra gli altri c’è la possibilità di migliorare l’umore, abbattere i livelli di stress e migliorare le condizioni fisiche.

L’altro mensile con cui approfondire è il numero uscito il 27 giugno di Mente e Cervello, di cui potete trovare qui l’editoriale: http://www.lescienze.it/mente-e-cervello/2014/06/27/news/la_funzione_evolutiva_del_cera_una_volta-2195194
Su questo numero diversi servizi approfondiscono le valenze terapeutiche della narrazione, ricevuta o prodotta. Tra l’altro le storie, dice il servizio intitolato Le storie nella mente, ci insegnano “a dare forma e significato alla realtà”.  Interessantissimi sono anche il servizio sulla Medicina narrativa e quello su Narrazione e psicoanalisi, ricchi di suggerimenti e di libri consigliati per approfondire.

Forse su queste pagine siamo sulla strada giusta. Questo stranissimo miscuglio di fiabe e appunti sulla scrittura potrebbe davvero servire a qualcuno. Lo spero tanto.
Io lo so, che scrivere fa bene, aiuta a mettere ordine e a cambiare. Non riesco nemmeno a immaginare una vita senza scrivere. Vorrei solo avere avuto prima la forza e il coraggio di esortare anche altri a intraprendere questa strada. Così, forse, avrei potuto evitare alcuni dei disastri che mi sono passati addosso in passato. Quello non lo posso cambiare, ma dicono che si può sempre “iniziare da adesso e terminare bene.”

Vorrei tanto sapere se state scrivendo, se avete fatto vostra l’abitudine delle Pagine del mattino o state incontrando qualche difficoltà, se leggete più storie e fiabe…

Buone fiabe, buonanotte.

sabato 19 luglio 2014

La danzatrice magica

La danzatrice magica


Al villaggio non si parlava d’altro: la danzatrice che doveva arrivare e che – si diceva –  era un incanto.
Ci rimasero tutti male quando giunse la notizia che l’imbarcazione con cui doveva viaggiare era ferma in porto, sulla terraferma, per via della tempesta.
Il mare sembrava beffarsi della festa che ogni anno si teneva sull’isola, proprio ora che tutto era pronto. Le lanterne appese in lunghe file tra le case e tra gli alberi, i musici migliori pronti a suonare e ghirlande di fiori a decorare ogni casa e ogni angolo del villaggio.
Ma il mare ruggiva, indifferente, scagliando grosse ondate sulla costa.
All’imbrunire, i primi  curiosi si recarono ugualmente in piazza, mentre i musici accordavano gli strumenti al riparo di un padiglione coperto da teli che ondeggiavano nel vento.
Dopo qualche ora, grazie allo scorrere del vino e alla musica, la danzatrice era dimenticata e coppie impacciate eseguivano complicati intrecci saltellando in mezzo alla piazza.
Nessuno notò lo scricciolo di donna che si aggirava timidamente tra la gente. Non aveva nulla di appariscente, a parte gli occhi, molto grandi. Portava i capelli raccolti in modo modesto e gli abiti erano coperti da un mantello grigio che doveva aver visto tempi migliori. 
Chiese un bicchiere di vino e sedette in un angolo a guardare la festa.
Il tempo peggiorava. Le file di lanterne iniziarono a ondeggiare nel vento e i teli del padiglione furono portati via da una raffica particolarmente forte. Un orecchio particolarmente fino avrebbe potuto cogliere, al di sopra della musica e del chiasso, il brontolio dei primi suoni in lontananza.
A un certo punto alcuni iniziarono a levare al cielo occhiate preoccupate, mentre nuvoloni scuri si ammassavano proprio sopra al villaggio.
Poi il lampo, seguito dal fragore di un tuono tanto vicino da non poter più essere ignorato. Le prime grosse gocce di pioggia che iniziavano a cadere e la gente, d’improvviso silenziosa, che si apprestava brontolando a tornare a casa, mentre i musici  riponevano i loro strumenti.
Fu allora, che la donna si alzò e si liberò con un sol gesto del mantello.
Avanzò nel silenziò fino al centro della piazza mentre tutti gli sguardi si posavano su di lei. “Chi è?” si bisbigliavano l’un l’altro gli abitanti del villaggio. Nessuno sapeva rispondere.
Un altro lampo, un altro tuono ed ecco che la danzatrice iniziò a muoversi in una danza dapprima lenta. Tutti gli occhi erano fissi su di lei. Danzava sul ritmo della burrasca e della pioggia!
I musici, dopo un lungo attimo di stupore, ripresero i loro posti e fecero del loro meglio per seguire quel ritmo misterioso che la danzatrice rendeva visibile per tutti.
Nessuno avrebbe saputo dire per quanto tempo rimasero tutti lì, a formare un insieme indissolubile tra la tempesta, la danzatrice, i musici e gli abitanti immobili sotto la pioggia, soggiogati da quello spettacolo incredibile.
Il vento ululava e strappava via le ghirlande di fiori, ma nessuno se ne curava, nessuno se ne accorgeva.
E a un tratto, come seguendo un misterioso segnale, la danzatrice, la tempesta e i musici si fermarono nello stesso istante, lasciando solo un grande silenzio interrotto solo dal rumore delle onde che si infrangevano sulla costa.
Tutto rimase sospeso per un lungo attimo e poi gli applausi e le grida di giubilo coprirono ogni cosa.
La danzatrice riprese il suo mantello, legò nuovamente i capelli e chiese un altro bicchiere di vino.
Fu abile a evitare le domande che le venivano rivolte e ben presto la festa riprese, più allegra di prima, protraendosi fino all’alba.
In un qualche momento la donna scomparve, così, come era arrivata.
Ma a quel villaggio lasciò ben più del ricordo di quella notte incredibile.
Ancora oggi, gli abitanti di quel villaggio sono sempre di buonumore, con il sole e con il cattivo tempo. Non si lamentano mai di quello che il cielo ha in serbo per loro. Anzi, a volte, quando sentono che sta per arrivare una tempesta, si rianimano e nei loro occhi brilla un lampo, come di bambini in attesa di aprire un regalo. E allora si ripetono l’un l’altro un antico proverbio, conosciuto solo lì: “Qualunque cosa ti riservi il Cielo, trova il ritmo e danza.”

giovedì 17 luglio 2014

Tutto l'aiuto possibile





Tutto l’aiuto possibile

Per scrivere, a volte, dobbiamo garantirci tutto l’aiuto possibile.
Abbiamo appurato che è piuttosto difficile che questo aiuto provenga dall’esterno e forse va bene così. le persone intorno a noi hanno da fare e noi dobbiamo imparare a fare tanto con poco e ad attingere alle nostre risorse interiori. 
Ok, ma come?
Scoprendo come funzioniamo.
Vi ho accennato di sfuggita, in passato, al fatto che scrivere è in qualche modo uno stato d’animo.
Adesso vediamo come entrarci, in questo stato d’animo.
Per quanto tutti diversi (e meno male!) abbiamo meccanismi simili. Tra l’altro, disponiamo tutti di un corpo che può diventare  il nostro migliore alleato. Lo so che siamo abituati a considerare le attività mentali e quelle fisiche come “separate”, ma non è così. Quello che facciamo con il nostro corpo influenza il nostro modo di scrivere.
Vi ho già detto che il semplice fatto di scrivere la nostra storia può essere una prima tappa per innescare processi di guarigione fisica e adesso analizziamo il processo contrario: come la nostra parte fisica può influenzare il nostro modo di scrivere.
Il primo punto è abbastanza banale e forse molti ne hanno fatto esperienza: un corpo “incriccato” e dolorante difficilmente sarà felice di stare per ore seduto a una scrivania senza protestare.
Quindi, meglio stancarlo un po’ prima di mettersi a scrivere.
Un’attività qualsiasi va bene, a patto che vi piaccia e che sia possibilmente abbastanza ripetitiva, in modo da lasciare la mente sgombra.
L’ideale, dicono gli esperti, è un’attività che preveda movimenti asimmetrici come una bella camminata. Camminando rilassati, portiamo in avanti in modo del tutto spontaneo una gamba e contemporaneamente il braccio del lato opposto del corpo (gamba destra, braccio sinistro e poi si alterna). Sembra che questo semplice fatto favorisca notevolmente le connessioni tra i due emisferi cerebrali destro e sinistro e di conseguenza la capacità di far lavorare meglio e in contemporanea le aree cerebrali preposte all’immaginazione e quelle che si attivano all’atto della scrittura e della produzione del linguaggio. Il cervello, mi dicono, è il pezzetto di materia più complesso dell’universo e lo studio delle diverse aree cerebrali che si attivano nel corso delle varie attività è semplicemente sbalorditivo.
Le discipline molto antiche, come lo Yoga, il Tai Chi Chuan e il Qi Gong tenevano conto di questo aspetto e sono infatti composte da moltissimi movimenti asimmetrici.

Da queste stesse discipline deriva un altro potente alleato della scrittura: il rilassamento profondo.
Quello che facciamo durante il giorno lascia tracce nel nostro organismo sotto forma di tensioni, di cui spesso non ci rendiamo nemmeno conto. Ci prendiamo un’arrabbiatura e ci viene “un nodo allo stomaco”. Siamo concentrati su un obiettivo e senza accorgercene alziamo le spalle e procediamo “a testa bassa”. Cerchiamo di contenere le emozioni e “stringiamo i denti” contraendo la mascella. Queste tensioni vanno sciolte con le tecniche di rilassamento che si possono apprendere in diversi corsi o con un buon manuale.
Il metodo più semplice consiste nello stendersi  supini con gli occhi chiusi e passare in rassegna mentalmente tutte le parti del corpo, cercando di rilassarle una per una. Questo “inventario” mentale in genere si completa nel giro di  15 minuti, ma con l’abitudine diventa più veloce e efficace.

Adesso siamo pronti e possiamo metterci al tavolo da lavoro, ma possiamo garantirci ancora qualche piccolo aiuto. Molti lavorano meglio con un po’ di musica in sottofondo. L’importante è creare intorno a sé un’atmosfera in cui ci si senta a proprio agio. A me la musica quando lavoro non piace tanto, invece mi aiuta moltissimo tenere una candela accesa o una piantina sul tavolo, chissà perché.
Un’altra cosa che può ci aiutare è avere intorno delle immagini o degli oggetti evocativi, che ci consentano di entrare nello stato d’animo adatto per quello che vogliamo scrivere.
Quello di cui ci piace circondarci mentre scriviamo può essere molto personale, ma l’importante e che funzioni per noi.
Il mio “aiutante” di oggi è quello che vedete nella foto. Era così bello rilassato sul mio davanzale da diventare un promemoria vivente del fatto che il momento più prezioso è adesso e che non c’è un altro luogo in cui dovrei essere se non qui. Noi fantasiosi a volte ci perdiamo, appunto,  a fantasticare su come sarebbe bello essere altrove, su come sarà bello il futuro o quella volta che in passato…
Gli animali sono molto più intelligenti di noi, in questo senso. Loro vivono nel presente e si godono quello che hanno qui.
Un davanzale assolato in una giornata estiva? Bello! E si mettono comodi.
Se questo post vi è piaciuto, ringraziate il pennuto. È stato lui a ricordarmi di tutto questo e a convincermi a mettermi al lavoro. Qui e adesso.