sabato 31 maggio 2014

La rosa bianca

La fiaba di oggi è dedicata a Dianora


La rosa bianca

La stradina della città di mare si inerpicava ripida verso le montagne mentre Seba il pescatore la risaliva con il fiato corto e la sua cassetta di pesce appena pescato sulle spalle.
Era l’ultima fatica, per quel giorno di primavera straordinariamente caldo. Dopo aver consegnato il suo pesce al ristorante arrampicato a mezza costa, avrebbe potuto riposare un po’.
Sembrava non esserci nessuno, a quell’ora in quella stradetta coperta di ciottoli che correva tra i muri a secco e gli ulivi.
Solo qualche lucertola scappava al suo passaggio, facendo frusciare le foglie delle erbacce che crescevano nelle fessure tra i ciottoli.
Seba si fermò un momento a riprendere fiato. Già intravedeva il belvedere del ristorante, con i suoi tavoli all’ombra del pergolato. I turisti avrebbero avuto il loro pesce fresco per godersi le giornate di festa in quell’angolo di paradiso.
Seba accolse con gioia uno sbuffo di vento leggero che venne a rinfrescarlo e iniziò mentalmente a comporre una poesia su quella giornata così bella.
Era, questo, il suo vizio segreto. Comporre poesie per tenersi compagnia quando era da solo per mare, o quando si trovava per queste viuzze solitarie.
Non le scriveva nemmeno, le sue poesie, accontentandosi del piacere che gli dava tenere occupata la mente giocando con le parole. Molte le ricordava a lungo, altre semplicemente le dimenticava col tempo, senza che nessuno sapesse che erano esistite. 
Stava per rimettersi in cammino quando vide, sul muretto, una rosa bianca bellissima. Era una rosa di quelle selvatiche, con i petali bianchi allargati e un profumo lieve. Quella rosa recisa non doveva essere lì da molto, perché era perfettamente fresca nonostante il sole caldo. Eppure, in giro non c’era nessuno e per quanto si sforzasse Seba non riusciva a vedere nessuna pianta di rose nei dintorni.
Raccolse la rosa, se la infilò nella camicia e proseguì il suo cammino. La padrona del ristorante, un donnone che rideva spesso ed era sempre di buon umore, ritirò il pesce, lo pagò e poi iniziò a scherzare con Seba: “Che bella rosa, che hai lì. Ti sei fatto un’ammiratrice?”
Il pescatore si strinse nelle spalle. Davvero non sapeva da dove provenisse quella rosa bianca.
Scese verso la costa fischiettando e andò a casa. Mise la rosa bianca in un bicchiere pieno d’acqua, si riposò un po’ sul letto e poi prese a ispezionare le reti, appena fuori dall’uscio, per vedere se c’era bisogno di qualche riparazione. Alcune andavano sistemate, in effetti, e lui si mise al lavoro di buona lena, finché gli venne in mente un’altra poesia e iniziò a comporla nella sua mente.
Si stupì un po’ quando si accorse che adesso le rose bianche nel bicchiere d’acqua erano due, ma si limitò a pensare che forse c’era un bocciolo che non aveva notato, che nel frattempo si era schiuso.
Quando venne l’ora, uscì per mare con la sua barca, in una notte limpida che sembrava appena creata apposta per lui. Il cielo indaco era pieno di stelle e una luna enorme si rifletteva nel mare calmo, mentre l’acqua sciabordava dolcemente contro i fianchi della barca. C’era un tale silenzio, una tale pace e una tale bellezza che a Seba venne subito da comporre una silenziosa poesia.   
Questa volta quasi gli venne un colpo, quando notò una rosa bianca, in tutto simile alle altre, posata sul timone.
Quando tornò a casa, mise la nuova rosa insieme alle altre due, lambiccandosi non poco su quel mistero.
Da quel giorno, ogni volta che Seba pensava una poesia, ecco comparire una nuova rosa, ovunque si trovasse. Ne trovò appoggiate alle tende della doccia, sul letto, persino nelle cassette di pesce.
Quelle rose misteriose non appassivano mai e ben presto il bicchiere non bastò più a contenerle. Così, il giorno di mercato, Seba decise di mettersi per strada per andare a comprare un vaso per le sue rose. Molto contento del suo acquisto, decise di mettere il vaso fuori dal porta, mentre stendeva le sue reti, per poter guardare le sue rose e il bell’effetto che facevano, tutte insieme dentro quel vaso.
Preso dalle sue faccende, alla fine se lo dimenticò lì, fuori dall’uscio.
Solo di rientro dalla pesca, avvicinandosi a casa, si ricordò del vaso e rimase di stucco, vedendo che le rose recise si erano trasformate in una pianta di rose che adesso copriva tutto un fianco della porta.
Era bellissima. Mentre Seba si avvicinava, una figura femminile emerse dalla rosa e lo attese paziente. “Chi sei?” chiese Seba un po’ spaventato. “Non importa chi sono,” rispose la figura leggiadra, “ma quello che devo dirti. Non hai capito che le rose bianche sono un messaggio?”
“Questo sì,” disse il pescatore, “ma quale messaggio, io non lo capisco.”
 “Pensa, Seba, pensa. Sono bianche, guardale bene…”
La figura svanì e Seba rimase a lungo a osservare le rose. Avevano petali bianchi e sottili come… come carta.
“Devo scriverle?” mormorò Seba. La pianta di rose ebbe un fremito e crebbe di almeno un palmo sotto gli occhi stupiti del pescatore.
Da quel giorno, le poesie di Seba non vissero più solo nella sua mente, ma divennero poesie in piena regola, scritte su bei fogli di carta bianca e sottile. La rosa, felicemente si arrampicò fino a ricoprire quasi tutta la facciata della casa e la gente veniva da lontano per vederla, quella rosa magnifica in fiore per tutto l’anno. Piano piano, la gente che veniva a vedere la rosa iniziò a conoscere anche le poesie e a parlarne in giro.
Così, Seba il pescatore, divenne famoso come Seba il poeta, il proprietario delle più straordinarie rose mai viste.


Buone fiabe, buonanotte

Quasi al traguardo


Siamo quasi in dirittura di arrivo. Ormai ancora pochi giorni e la Disfida sarà terminata. Proprio in questo momento Facebook ha deciso di cambiare le impostazioni e di limitare la portata di quanto pubblicato sulle pagine. Non ci voleva.
Con queste nuove impostazioni sono scomparsi alcuni contenuti e sarà più difficile per tutti cercare tra le fiabe quelle preferite.
Altri problemi personali con cui non sto a annoiarvi mi hanno completamente rattrappita, così, mi sento quasi prosciugata la vena creativa.
Per la prima volta ho saltato un giorno. Non riuscivo a scrivere la nuova fiaba.
Eppure per un mese vi abbiamo portato con noi tra principesse e montagne incantate, tra streghe e gnomi, pensiline degli autobus e fate.
Spero sinceramente che vi siate divertiti.
Per me, questa esperienza è stata straordinaria.
Man mano che proseguivo con le nuove fiabe, una al giorno, mi stupivo della risposta delle persone e scoprivo nuovi territori inesplorati del mondo fantastico.
Vi avevo promesso di portarvi il più vicino possibile al cuore pulsante di questo mondo, di Feeria, e adesso posso dirvelo: il cuore pulsante di Feeria coincide con il vostro, con il nostro.
Abbiamo ampiamente dimostrato che qualunque cosa può essere l’oggetto di una fiaba e che il mondo incantato è tutto intorno a noi. Basta guardare con il giusto stato d’animo.
Come faceva Italo Calvino dopo aver completato il lavoro sulle Fiabe italiane, mi chiedo se riuscirò a rimettere i piedi per terra, dopo che per tanto tempo “il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo.”
La verità è che proseguirò a tenere un piede nella realtà e uno ben saldo nel mondo fantastico, come ho sempre fatto.
Sui nuovi progetti “post Disfida” vi aggiornerò in seguito.
Intanto, se volete, vi chiedo di dire la vostra sulle fiabe pubblicate fin qui. Siate sinceri, non indorate la pillola. Ma se qualche fiaba vi è piaciuta, ditelo. Ditelo anche ai vostri amici, ora che Facebook ha deciso di cambiare le regole del gioco e ci rende più difficile raggiungere le persone con le nostre forze.
Vincerà la fiaba che al termine, il 5 giugno, avrà ottenuto il maggior numero di “Mi piace” sulla pagina Facebook. Ma i vostri commenti e le vostre osservazioni sono più che mai preziosi per capire che cosa vi piace, che cosa il mondo incantato delle fiabe significa per voi.
Se lo fate, oltre la Disfida, mi aiuterete moltissimo a dare forma ai nuovi progetti.
Buon fine settimana. Buone fiabe.

venerdì 30 maggio 2014

La farfalla d'oro

La farfalla d’oro


Un’antica leggenda dice che ogni cento anni viene mandata sulla terra una farfalla d’oro, incaricata di andare per il mondo e aiutare qualcuno che ha bisogno di cambiare completamente vita.
La missione della farfalla d’oro  iniziava sempre in primavera, quando abbondavano i fiori più belli. I teneri fiori dei ciliegi, quelli timidi del bosco, quelli eclatanti dei giardini, tra rose, glicini e lillà…
   

C’era una volta, in una grande città, un balcone spelacchiato. Il balcone era piccolo, ma ospitava solo una pianta di gerani mezzo rinsecchita e una pianta grassa, che a ogni inverno rischiava di morire e a ogni estate caparbiamente si riprendeva nonostante la scarsità di cure.
Perché la proprietaria di quel balcone era una Donna Ambiziosa e non aveva certo tempo per frivolezze come la cura dei fiori. Lavorava ogni giorno in un ufficio con l’aria condizionata e addomesticata e profumata artificialmente, al punto che quando ne usciva a malapena distingueva gli odori.
In ogni caso non aveva tempo nemmeno per frivolezze come gli odori, perché  lei aveva Cose Più Importanti da fare.
Telefonate di lavoro, maneggi, imbrogli per surclassare i colleghi e mettersi in luce coi superiori, scartoffie da compilare diligentemente per dimostrare che lei ci sapeva fare.
Forse era anche brava nel suo lavoro, ma il prezzo che pagava per quell’assegno mensile che le arrivava alla fine del mese era l’aver rinunciato a molte delle cose che rendono piacevole la vita.
Rimandava sempre il momento per godersi la vita, pensando che in ogni caso avrebbe potuto farlo dopo aver fatto carriera.
Ma il destino aveva in serbo altri piani per lei o forse fu lei stessa, a furia di rinunce, a rovinarsi la salute, fatto sta che a un certo punto si rese necessario un intervento chirurgico e cure lunghe e costose.
Alla Donna Ambiziosa sembrò di morire, tenuta lontana da quel lavoro che usava portarsi a casa anche nei fine settimana e che era diventato il centro assoluto della sua vita.
E che cosa fa una persona che ha perso il centro della sua vita?
Si dispera, naturalmente. In alcuni casi si aggira nervosamente per la casa come una belva in gabbia. E poi, inesorabilmente, ne trova un altro.
Chissà se fu la strana somiglianza che riscontrò tra se stessa e quelle piante trascurate, ma un giorno decise che quelle poverette avevano bisogno di cure.
Comprò vasi nuovi e terra, e già che c’era anche due nuove piante per il balcone, solo perché era sedotta dal profumo di una e dai colori dell’altra.
Le piante reagirono molto bene a quell’inedito interesse per loro e in pochi giorni il geranio fiorì, regalando moltissimi fiori rossi. Anche la pianta grassa, una volta sistemata in un vaso più adeguato e con terriccio fresco, prese a prosperare e in breve tempo raddoppiò le sue dimensioni.
Adesso che il tempo libero non le mancava, la donna iniziò a trascorrere ogni giorno qualche ora sul balcone, tra le piante che la riempivano di gioia e che si moltiplicavano rapidamente.
Adesso, un gelsomino profumato si arrampicava su un graticcio all’ombra di un banano, mentre cascate di fiori colorati si affacciavano dal balcone scendendo per un buon tratto.
Altri vasi ospitavano fiori di stagione e stavano giusti per fiorire le lavande, quando un giorno la donna notò una cosa svolazzante tra i suoi fiori. Un po’ perplessa, guardò meglio e si accorse che era una farfalla che sembrava d’oro.
Rimase incantata a guardarla, senza sapere che quella farfalla leggendaria compariva solo quando una persona aveva bisogno di una svolta radicale nella propria vita.
La farfalla d’oro tornò il giorno e quello dopo ancora e la donna iniziò a sentirsi trasformata, anche se non capiva l’origine di quella trasformazione.
Un giorno, presa da un impulso irresistibile, prese una penna e un taccuino e si sedette sul balcone a scrivere di quei suoi fiori, di quella farfalla d’oro e poi via via di tutte le cose belle che a lei sembrava di scoprire per la prima volta.
In seguito decise di riordinare tutti quegli appunti disordinati e ne ricavò un libro, che inviò a un editore, anche se non contava troppo su una risposta.
Ormai era guarita perfettamente e tornò al lavoro. Ma qualcosa era cambiato in lei e non riusciva più ad appassionarsi alle sue solite mansioni, che adesso le apparivano sterili e anche un po’ insensate.
Invece continuava a pensare al suo balcone, ai suoi profumi e ai suoi colori.
E poi, un giorno, arrivò una lettera. Con una proposta di edizione.
La donna la posò sul tavolo e la guardò per tutta la sera come avrebbe guardato un ufo atterrato direttamente nel suo salotto. Poi prese la sua decisione, accettò la proposta, lasciò il lavoro e si dedicò interamente a quello che amava e che la rendeva felice.
Miracolosamente, non solo non divenne più povera, ma iniziò a guadagnare anche meglio di prima e a godersi molto di più la vita.
Cercò ancora la farfalla d’oro tra i suoi fiori, ma ormai non ne aveva più bisogno. 


mercoledì 28 maggio 2014

Le paperelle affondate


Siamo alla fiaba di oggi.
 

Le paperelle affondate

Il mare, immenso, azzurro e luccicante, attendeva la grande nave carica di container che doveva salpare quel giorno.
Dentro uno di quei container, tutti ordinatamente stivati, c’era un carico di paperelle di gomma che, tra tutti i passeggeri di quella nave, erano le più eccitate all’idea del viaggio.
“Ma vi rendete conto?” stava chiedendo paperella Sofia alle compagne “che attraverseremo l’OCEANO? Le nostre colleghe, al massimo, galleggiano in un vasca da bagno o in una piscina gonfiabile. Come siamo fortunate!”
“Sì,” le rispose paperella Geltrude, “ma tanto, chiuse qui dentro, non vedremo niente di niente…”
“Su, su, state buone,” intervenne subito paperella Beatrice, “che il viaggio è lungo e se iniziate a litigare adesso diventerà un tormento.”
Dentro il container, il chiacchiericcio proseguì sommesso fino a quando si sollevò un grande “Ohh” deliziato nel momento in cui  la nave finalmente prese il mare.
Le paperelle si tenevano occupate con canzoncine, conversazioni e giochi e le giornate di navigazione proseguivano un po’ noiose, ma piacevoli.
Secondo i calcoli delle paperelle (che però, devo dire, in geografia non erano proprio degli assi) si trovavano più o meno nel bel mezzo del Pacifico quando arrivò la TEMPESTA.
Le paperelle venivano sbattute tutte da una parte e dall’altra del container e alcune, vergognandosi un po’- visto che erano fatte apposta per galleggiare- iniziarono a dare chiari segni di soffrire il mal di mare.  Da gialle che erano, diventarono verdastre e poi decisamente verdi, mentre le compagne cercavano di scansarle in tutta quella baraonda di code e becchi sballottati di qua e di là.
“Per la Grande Anatra,” borbottava Geltrude, “Non voglio mai più salire su una nave in vita mia!”
Sofia, che era ormai di un verde brillante, stava zitta e cercava di tenersi ai bordi del container, ma gli ondeggiamenti, davvero molto forti della barca la sballottavano senza pietà.
Rumori stranissimi provenivano da fuori: scrosci di ondate, le urla dei marinai, lanci di razzi di segnalazione, schianti.
Poi, all’improvviso, un colpo fortissimo che ruppe il container e acqua, acqua da tutte le parti.
Dapprincipio si sentirono tutte risucchiare verso il basso, in quell’improvviso silenzio acquatico, tra gli schianti sempre più numerosi dello scafo che si apriva come una scatoletta.
Poi, la loro natura galleggiante le sospinse in alto, in alto, sulla superficie di quel mare arrabbiato.
Sbucarono una dopo l’altra sul pelo dell’acqua e cercarono di tenersi unite, ma non era facile, in mezzo a quelle ondate. Videro i marinai tutti avviliti sulle scialuppe e strani relitti galleggiare intorno a loro.
“Stiamo unite!” strillava Beatrice in quel pandemonio, ma il vento si portava via le sue parole e il gruppo di paperelle finì per dividersi.
Geltrude si trovò chissà come, alla guida di un gruppo di paperelle trascinate verso nord. Quando il mare finalmente si placò, contò le sue amiche e le implorò di farsi coraggio, che prima o poi le correnti le avrebbe portate a terra.
In un altro punto dell’oceano, stava facendo lo stesso Sofia, alquanto rinfrancata dall’aria fresca e dal movimento più tranquillo delle onde che sospingevano lei e le sue amiche verso est.
In un altro punto ancora dell’immenso oceano, anche Beatrice contava le sue compagne, mentre le correnti marine le sospingevano verso sud.
La navigazione non fu esente da rischi, ma le paperelle, appena si furono riprese dallo spavento, iniziarono di nuovo a intrattenersi con giochi e canzoncine, commentando tutte le cose meravigliose che vedevano. E ne vedevano!
Una paperella perse la coda per un morso di un pesce, che però la spuntò subito e se andò sdegnato con grandi colpi di pinne, decidendo evidentemente che la gomma non era cibo per lui.
Le paperelle dirette verso nord, videro distese di ghiaccio, gli iceberg, che si innalzavano come montagne sul mare.
E poi videro delfini e altre creature marine che giocarono con loro, a volte accompagnandole per un tratto.
Le paparelle del gruppo di Sofia, sbarcarono dopo diverso tempo in California, tra gli sguardi sorpresi dei bagnanti che videro arrivare sulla spiaggia quella moltitudine di paperelle un po’ sbiadite dal sole e dall’acqua salata.
Geltrude e le sue amiche, dopo qualche tempo sbarcarono sulle coste dell’Alaska, dove furono raccolte da rudi pescatori molto stupiti di trovarle lì.
Beatrice, che era quella più ferrata in geografia, stava cercando di attraversare il canale di Panama per andare nel Mar delle Antille, di cui aveva sentito parlare molto bene, quando fu catturata e tirata a riva insieme alle sue compagne per mezzo di grandi reti da pesca.
Alla fine, grazie alla televisione che iniziò a interessarsi di quello strano caso, le paperelle vennero a sapere che tutte le loro compagne erano sane e salve, anche se in punti diversi del continente.
Un po’ alla volta, chi da persone grandi, chi da bambini, tutte le paperelle furono adottate e trovarono case accoglienti in cui trascorrere il resto dei loro giorni. Ma tutti i proprietari di quelle paperelle giurano ancora che mantennero sempre il profumo del mare e che di notte narravano nel buio le loro avventure o cantavano sommessamente strane canzoncine. 

Lupo bianco e corvo nero

Chiedo scusa, ma non sono riuscita a postare la fiaba ieri sera. Comunque, eccola qui


Lupo bianco e corvo nero

Quello era un inverno particolarmente rigido anche per le foreste del Grande Nord. Il cibo scarseggiava e gli animali affamati percorrevano il territorio in lungo e in largo alla ricerca di qualcosa per sfamarsi.
In mezzo al candore della neve, si aggirava un lupo che sembrava baciato dalla sorte perché, avendo un manto candido, si mimetizzava perfettamente.
Il lupo bianco leggeva nelle tracce della neve gli spostamenti delle sue prede, poi si acquattava dove aveva maggiori possibilità di coglierle alla sprovvista. Rimaneva immobile fino a quando non erano abbastanza vicine e poi, con un balzo se ne impadroniva.
Ma quell’inverno era difficile anche per lui, così quel giorno si aggirava affamato senza trovare nemmeno una traccia.
E poi, vicinissimo a lui, si posò un corvo. Era nero come la pece e sulla neve spiccava come un pugno in un occhio.
Il lupo spiccò un balzo e lo strinse tra le zampe.
“Risparmiami” disse il corvo. “Non sai quanto potrei esserti utile.”
“Certo che puoi essermi utile: come pasto” rispose il lupo.
“No, no. Lasciami andare. Non te ne pentirai.”
Il lupo aveva fame, ma quell’uccellaccio non aveva proprio l’aria appetitosa, nero nero e scarno com’era.
“Va bene, ti lascio andare. Ma se non manterrai la parola, la prossima volta non sarò tanto generoso.”
Il corvo fece un segno d’assenso. Appena il lupo aprì le zampe, però, volò subito più alto che poteva.
Il lupo era tanto disgustato che dovette scrollarsi per bene la pelliccia.
Poi si rimise in cerca di tracce.
Ma ecco che dopo un po’ tornò il corvo. “Ho trovato delle tracce per te, seguimi!”
Adesso il corvo volava basso, per consentire al lupo di seguirlo, e il lupo gli correva agilmente dietro, tenendo il passo.
Se ci fosse stato qualcuno a vederli, il corvo nero che volava in mezzo alla neve e il lupo bianco che lo seguiva, lo avrebbe davvero trovato un bello spettacolo.
E infatti, qualcuno a vederli c’era.
Una donna antica, che si muoveva senza lasciare impronte sul terreno. La Donna del Bufalo Bianco
Il corvo guidò il lupo sulle tracce della sua preda e il lupo, per riconoscenza, divise il suo pasto con lui.
Poi si misero a riposare in una radura, cercando di scaldarsi un po’ ai raggi di quel sole invernale.
Donna del Bufalo Bianco comparve loro davanti all’improvviso.
Gli animali si alzarono in segno di deferenza mentre lei diceva: “Che cosa combinate, voi due? Caro lupo, non sai che c’è un motivo se sei bianco come la neve? Caro corvo, anche tu sei stato fatto nero come la notte per una ragione. Perché volete infrangere le leggi che vi vogliono opposti?”
“Perché insieme siamo invincibili,” rispose il lupo. “Ognuno di noi è forte nel proprio ambiente, ma insieme, non c’è ambiente che possa batterci. Il corvo vede le tracce, anche quelle dei cacciatori che potrebbero abbattermi per la mia pelliccia, e io, con la mia forza e il mio manto bianco, posso cacciare a terra mille volte meglio di lui e proteggerlo dai pericoli quando si posa.”
La Donna del Bufalo Bianco li osservò a lungo dritti negli occhi.
“E sia,” disse infine. Siete stati creati per essere opposti, ma avete trovato il modo di incontrarvi e avete scoperto la forza che da questo può scaturire. Vi rendo onore, per questo. Ma gli opposti sulla terra, per ora, devono rimanere tali. Quindi vi vieto di dire ad altri quello che avete scoperto. Questa è una strada che ognuno deve trovare per proprio conto. Siamo d’accordo?”
Gli animali abbassarono la testa in segno di assenso e la Donna del Bufalo Bianco se ne andò, silenziosa come era venuta.
Da allora, il lupo bianco e il corvo nero continuano a cacciare insieme, nelle foreste del Grande Nord. Se qualcuno li osserva, fingono ancora di essere nemici per rispetto dell’antico patto.
Ma se osservate bene, se li osservate davvero bene, potreste scoprire qualcosa….
 

lunedì 26 maggio 2014

La ginnasta


 la fiaba di oggi è dedicata alla piccola Gaia, con tantissimi auguri per una rapida guarigione.


La ginnasta
Gaia si stava allenando per le Olimpiadi, che sarebbero iniziate l’indomani.
Era nervosa, molto nervosa. Aveva smesso di contare da quanti anni eseguiva quegli esercizi che le avevano fatto guadagnare fama e medaglie, anche se a prezzo di tanto lavoro e sacrifici.
Adesso, stava per cogliere i meritati frutti di tanta fatica, se tutto fosse andato bene. Le altre ginnaste erano molto brave e lei era un po’ inquieta, ma sapeva di essersi preparata al meglio delle sue possibilità e di avere ottime probabilità di vincere.
Chissà perché, le tornò in mente quell’anno di tanti anni prima, in cui aveva dovuto rinunciare a un’importante competizione per un soffio.
Non proprio un soffio, in realtà. Una brutta frattura. Era da molto tempo che non ripensava a quell’episodio. Chissà perché le tornava in mente proprio adesso.
E mentre inseguiva con la mente quell’episodio lontano, Gaia si distrasse. Un brutto movimento, il tonfo della caduta.
“Oh no!” riuscì a pensare Gaia prima di perdere conoscenza.
Le sembrò di precipitare nel buio e poi vide una luce in lontananza. La seguì e sbucò in un paesaggio aperto, che non riusciva a scorgere bene a causa della luce abbagliante. Si guardò stupefatta. Era tornata quella Gaia di tanti anni prima, quando la frattura le aveva impedito di partecipare alla competizione. Una figura le si avvicinava, in mezzo a tutta quella luce. Sembrava… ma sì, Mago Merlino. Un vecchio con una lunga barba bianca e il cappello a punta.
“Benvenuta, Gaia” le disse il vecchio. “Ti stavamo aspettando.”
Gaia rimase per un pezzo senza parole. “Mi stavate aspettando?” riuscì a chiedere infine.
“Naturalmente” disse il vecchio mago con un lieve sorriso e un tono sereno.
“So che tu volevi incontrare soprattutto me, ma vedi, per il tuo problema io non ho potere. Seguimi, ti prego. Ti porto da chi potrà aiutarti.”
Gaia non ricordava di avere un problema, veramente. Però era vero, che era sempre stata affascinata dalla figura di Mago Merlino. Ora che lo guardava bene, sembrava più che altro un miscuglio tra Mago Merlino, Gandalf e Albus Silente.
Insomma un grande vecchio, di quelli che ci aspetta che conoscano tutti i segreti del mondo.
E lui le stava dicendo che non poteva aiutarla?
Gaia iniziò a preoccuparsi, forse il suo problema era davvero serio…
Gli occhi si erano finalmente abituati a tutta quella luce e scoprì di trovarsi  in una valle tra alti monti. Una montagna spiccava bianca davanti a lei, coperta di neve e ghiaccio. Era il riverbero del sole sulla neve e sul ghiaccio ad averla abbagliata.
Mago Merlino le porse un paio di morbidi stivaletti foderati e un mantello altrettanto morbido e caldo, poi si avviò su una mulattiera che sembrava percorrere il fianco della montagna. Gaia si strinse nelle spalle, indossò i suoi nuovi indumenti e lo seguì.
Camminarono a lungo, ma Gaia riusciva a procedere senza fatica. Il panorama era splendido, e la stradina tortuosa che stavano percorrendo offriva sempre nuovi scorci e nuovi paesaggi. A un tratto, di trovarono davanti a un ponte sospeso che sembrava pericolosamente malmesso.
Il ponticello di legno e corde oscillava al vento su una gola scoscesa, irta di rocce.
Mago Merlino si voltò e le sorrise. “Coraggio! Siamo quasi arrivati!” disse il vecchio facendole segno di avanzare.
Gaia sentiva un senso di nausea stringerle lo stomaco. Ma si costrinse ad avanzare e in qualche modo superò il ponte, che si sgretolò subito dopo il loro passaggio.
“Come faremo a tornare indietro?” si preoccupò la ragazza. “Non ti preoccupare,” rispose Merlino continuando ad avanzare canticchiando.
Arrivarono a un tratto davanti a una parete di roccia e ghiaccio. Il sentiero sembrava svanire in quel punto. “Per di qua!” disse allegramente Merlino toccando la parete di ghiaccio con il suo bastone, e immediatamente ecco un arco aprirsi, consentendo ai due di entrare in quella che sembrava un’enorme caverna di ghiaccio. Era talmente splendida, che Gaia rimase senza fiato. Le pareti erano trasparenti e la luce giocava sui cristalli e sul ghiaccio formando ovunque piccoli arcobaleni danzanti.
In mezzo alla caverna c’era una sorta di alta fontana di ghiaccio, da cui sgorgava un’acqua limpidissima.
“Benvenuti” risuonò una voce cristallina. La donna che avanzò verso di loro era maestosa.
Alta e bionda, indossava un abito incredibilmente luccicante  che sembrava di cristallo sottile e morbido, tra cui spiccavano gemme luminosissime. La donna aveva al tempo stesso un aspetto giovane e una saggezza che sembrava antichissima. Salutò rapidamente Merlino, che si inchinò dinanzi a lei, e poi si rivolse a Gaia.
“Eccoti qui, finalmente,” disse la donna osservando Gaia con un sorriso. La ragazza, sotto quello sguardo, si sentì compresa fino in fondo all’anima, senza sapere perché.
“Mi scuso per non averti dato prima il tuo dono, ma per ogni cosa, bisogna aspettare il moento adatto,” disse la donna prendendo posto su un trono di ghiaccio e indicando un sedile sontuoso, pure di ghiaccio, a Gaia.
“Ma sono contenta di potertelo dare adesso.” Con quelle parole, porse a Gaia una scatolina di cristallo, che custodiva al suo interno un numero imprecisato di stelline di ghiaccio.
“Che cosa sono?” chiese Gaia, pentendosi subito di quel tono confidenziale con quella che evidentemente era una creatura fatata.
La donna sorrise. “Sono i tuoi desideri, Gaia. Quelli che a ogni donna è dato di realizzare nel corso della vita. Questi sono quelli che ti spettano. Ogni volta che ne realizzerai uno, una stella di ghiaccio si scioglierà. Vedi? Una si sta già sciogliendo…”
All’improvviso, anche la caverna di ghiaccio e tutto il resto sembrarono sciogliersi. Gaia si ritrovò sul stesa a terra, mentre la sua allenatrice la scuoteva. “Gaia! Tutto bene!”
Gaia si sollevò a sedere, guardandosi intorno.
Ma sì, gli allenamenti, le Olimpiadi…
Scosse la testa e mosse con cautela gli arti, uno alla volta. Tutto funzionava alla perfezione. Non si era fatta niente.
Si alzò e provò qualche movimento. Perfetto! Le sembrava di essere più sciolta, più leggera. Si sentiva lucida e piena di energia. E il giorno dopo, avrebbe partecipato alle Olimpiadi!
Chissà perché, adesso si sentiva piena di fiducia. Nulla le sembrava impossibile. Non più.

   


      

domenica 25 maggio 2014

Il pavone blu

Pensavate di esservi scampati la fiaba del giorno, eh?
Invece no. Eccola qui.

Il Pavone blu

C’era una volta una bambina che si chiamava Adele e che amava moltissimo andare a trovare una vecchia zia.
Questa vecchia zia era un po’ scorbutica e di cattivo carattere, quindi andarla a trovare non piaceva quasi a nessuno, in famiglia.
Abitava in una casa che un tempo doveva essere stata sfarzosa, con una serie di stanze, sale e salotti che si affacciavano gli uni sugli altri, ma adesso era solo trascurata, polverosa e piena di vecchie cose.
Adele non aveva capito bene come mai, visto che la zia non aveva mai avuto figli, ma in casa sua c’era anche una grande stanza per bambini, piena di vecchi libri e giocattoli d’altri tempi.
Ma non era nemmeno per quella, che Adele amava andare dalla zia.
Il motivo della sua predilezione per quella casa era un dipinto.
Era un dipinto grande, che raffigurava un giardino in cui passeggiava un volatile straordinario, di un blu incantevole, con una coda grandissima aperta a ruota composta da piume bellissime, leggere e con una decorazione verso la fine.
Adele si sedeva in salotto, rispondeva educatamente alla zia e accettava di buon grado il tè striminzito con appena un pezzetto di pane e burro che veniva offerto per merenda, pur di poter ammirare quel dipinto.
Le provocava una sorta di desiderio struggente di allungare la mano e accarezzarlo, quel pavone, di sentire sotto le dita quelle piume che sembravano più lievi dell’aria.  
Le sembrava così ingiusto, averlo lì a portata di mano, con quell’aspetto più vero del vero, eppure non poterlo raggiungere.
Se ci fosse stata una magia per entrare in quel dipinto, Adele l’avrebbe accettata all’istante e a qualunque costo.
Ma non poteva.
Non conosceva nessuno in grado di fare quella magia, e il suo desiderio cresceva inutilmente a ogni visita alla zia.
Passarono diversi anni, la vecchia zia passò a miglior vita e il dipinto col pavone arrivò infine a casa di Adele.
Adesso poteva guardarlo tutte le volte che voleva, ma quel desiderio struggente di toccarlo, invece di placarsi, diventava sempre più forte.
Fino a che la bambina iniziò a provare un’avversione sorda per quel dipinto che prima l’aveva tanto affascinata. Le sembrava una promessa non mantenuta, quella dell’artista che aveva raffigurato così bene quel giardino e il suo abitante.
Dava l’illusione di trovarsi davvero in quel giardino, di potere allungare una mano e toccare il pavone, ma era solo un imbroglio - ora che era più grande Adele lo sapeva – fatto di tela e colori. Non c’era niente di vero.
Era qualcosa che faceva nascere un desiderio impossibile da realizzare.
Così la bambina evitò accuratamente di guardare ancora il dipinto. Quando era in salotto, sedeva in modo da non doverlo vedere e si teneva sempre impegnata in qualcosa, un libro o un ricamo, per evitare di alzare lo sguardo.
Ma poi un giorno un parente di ritorno da un viaggio portò in dono alla mamma proprio un ventaglio di piume di pavone, definendolo magico, perché in grado di allontanare la malasorte.
Adesso Adele le poteva toccare, quelle piume straordinarie e per qualche tempo si senti felice di passare ore a giocare con il ventaglio di piume di pavone.
Ben presto, però,  tornò a invaderla quel senso di insoddisfazione che non comprendeva.
Adesso cercava di evitare sia il dipinto che il ventaglio.
Fino a quel pomeriggio d’estate in cui, vinta dalla calura, si addormentò sul divano proprio sotto al dipinto del pavone blu.
Sognò il pavone che dolcemente scendeva dal dipinto. Il sogno era molto realistico, e Adele nel sogno sollevava il pavone e percepiva il peso dell’animale e il suo calore attraverso le piume. La lunga coda era chiusa, e il pavone le rivolgeva la parola: “Tu mi hai voluto tanto bene, senza saperlo, e io per gratitudine ti posso esaudire un desiderio. Solo uno, quindi scegli bene.”
Adele nel sogno non ebbe un attimo di esitazione. “Desidero avere un giorno un giardino come quello del dipinto, con un bel pavone come te ad abitarlo.” “Così sarà,” rispose il pavone prima di tornare nel dipinto, aprire la coda a ruota e salutare con un cenno Adele prima di tornare immobile.
Adele si svegliò da quel riposo sul divano stranamente pacata, convinta che il pavone, un giorno, avrebbe mantenuto la sua promessa. E così fu, in effetti.
Adele, una volta adulta, andò a vivere in una casa con un giardino che pazientemente diventò come quello del dipinto, in cui passeggiavano non uno, ma tanti pavoni blu con i loro straordinari piumaggi. E lei fu una donna molto, molto felice.
 
Buone fiabe. Buonanotte.
 

Gita a Feeria III – Alzati, Bambi!


Gita a Feeria III – Alzati, Bambi!

Sì, oggi parliamo di cadute.
Non cadere è meglio ma, se succede, bisogna rialzarsi. Sempre.
Se avete visto Bambi, il lungometraggio Disney, sapete che a un certo punto la foresta si incendia.
Bambi sbaglia un salto e cade. In quel momento sembra arreso al proprio destino. Sta lì, inerme.
Allora compare in quell’inferno di fuoco il padre di Bambi, il Re della foresta, che gli intima di alzarsi. Sembra quasi feroce, quel suo insistere, ma in quel modo lo salva, lo guida oltre il fiume, dove le fiamme non arriveranno.
Per qualsiasi attività creativa è lo stesso. Può succedere di “cadere”. Perché si ricevono critiche che fanno male, perché il proprio lavoro viene frainteso, perché a noi stessi in qualche momento non piace quello che facciamo e ci chiediamo che cosa non va.
Non siamo diversi dagli altri e sentiamo anche noi la fatica, il dolore, la confusione.
Ma bisogna rialzarsi.
È ancora Julia Cameron a scrivere: “Le persone di successo non sono quelle che non falliscono mai, ma quelle che si rialzano e ci riprovano anche dopo i fallimenti.”
Mi sono presa l’influenza, la settimana scorsa. Mi sono presa anche qualche delusione. La vita prosegue, con i problemi di lavoro, le mille cose da ricordare, i piccoli e grandi inciampi.
Qualche sera mi sono davvero chiesta se non avrei fatto meglio a mettermi tranquilla con una tisana e un buon libro, invece di proseguire.
Ma no. Non ci riesco. Non è da me “bucare” le consegne. Se mi sono presa un impegno, vado avanti. Anche a costo di scrivere mica tanto bene.
Qui c’è uno scontro forte tra quella che è la tipica mentalità occidentale, che impone di rialzarsi sempre e di andare avanti sempre, e quella orientale, che invece in questo caso consiglierebbe forse di cedere.
Sembra che l’altra concorrente si sia presa una pausa. Non sono in grado di dirvi se ha ragione lei, ma sospetto di sì.
Quando le cose non vanno, magari è più sensato smettere un attimo e poi ripartire con rinnovate energie.
Ognuno deve scegliere che cosa funziona meglio nel proprio caso.
Ma l’importante è rialzarsi. Arrivare al momento in cui si riprende il cammino dove si era interrotto.
Gli eroi delle fiabe non si arrendono.
Non ricordo più in quale fiaba, c’è un eroe che per salvare la principessa deve riuscire a non addormentarsi. Tutto qui. Ma non ci riesce. Per una volta, due, tre.. ogni volta si addormenta. Rinuncia e se ne va a casa? No. Ritenta. Fino a quando non ci riesce e porta a termine la sua missione.
Nelle fiabe, quando l’eroe sembra rinunciare è solo perché ha pensato di prendere una strada diversa che lo porti alla sua meta.
Ma alla sua meta ci arriva. Anche quando è faticoso, difficile e magari bisogna farsi un po’ male sui rovi che circondano il castello della Bella addormentata.
Bambi si rialza.
Facciamolo anche noi.

Buona domenica.

sabato 24 maggio 2014

La magia dell'amore

La magia dell’amore

C’era una volta un angelo distratto. Tanto distratto che era stato mandato sulla terra, in incognito, affinché potesse imparare a fare un po’ attenzione. E anche perché il Cielo potesse riposare un po’ dai suoi disastri.
Non era cattivo – di solito gli angeli non lo sono – ma la sua distrazione era davvero troppa. Quando volava, andava a sbattere contro gli aerei e le cime delle montagne.
Quando cantava, perdeva il filo e si ritrovava a cantare tutto solo una strofa indietro a tutti gli altri angeli, quando si aggirava per il Cielo… insomma, avete capito.
Arrivato sulla Terra, l’angelo distratto si guardò un po’ intorno per orientarsi. Era in una grande città e lui non era abituato a tutta quella confusione.  Rischiò la vita almeno dodici volte per andarsi a comprare un panino con hamburger. Aveva sempre sognato di mangiarne uno!
Seduto su una panchina del parco, stava addentando la sua delizia quando un cane proprio carino gli si sedette davanti e iniziò a scodinzolare.
L’angelo si abbassò per accarezzarlo e l’hamburger gli cadde dal panino. Il cane l’afferrò al volo e se la diede a gambe, e l’angelo dietro, abbandonando il pane sulla panchina.
Il cane ebbe la meglio, e scomparve con l’hamburger in bocca dopo un paio di scarti tra i cespugli.
A quel punto l’angelo distratto non si ricordava più su quale panchina era seduto. Ma ci pensarono i piccioni e gli uccellini del parco, a farglielo capire.
Sì, perché si erano avventati tutti sul panino abbandonato e lo avevano mangiato.
Quando l’angelo tornò a sedersi, si alzarono tutti in volo con un frullare d’ali e lui osservò desolato la carta unticcia e ormai vuota del suo panino.
Aveva un’aria talmente comica, che una ragazza seduta lì vicino scoppiò a ridere di cuore.
“Dai, non te la prendere!” gli disse. E avvicinandosi gli porse un panino con hamburger ancora incartato. “Ecco, prendi questo. A me non va.”
L’angelo accettò e finalmente si dedicò al suo primo pasto sulla terra, mentre la ragazza seduta accanto a lui lo tempestava di domande.
Vedendolo così sperso e avendo capito che non aveva un posto in cui andare, la ragazza si offrì di ospitarlo per la notte. “Non ti aspettare granché,” lo avvertì.
La casa in effetti era molto modesta, ma l’angelo non aveva modo di fare paragoni e la trovò carina e accogliente.
C’erano qua e là piantine stentate dall’aria malaticcia, pochi mobili che avevano visto tempi migliori e un gran disordine. “Sai, lavoro in un bar per mantenermi gli studi” disse la ragazza con aria di scusa. Ma l’angelo distratto non notava altro che l’allegria e la generosità della sua ospite.
Provava per lei una gratitudine così grande, che si sentiva scoppiare il cuore. Quella era una cosa così bella da contemplare, che non si distraeva. 
Accettò le coperte che lei gli offriva e trascorse la notte sul divano, ma un bel po’ prima dell’alba fu in piedi per mettersi al lavoro. Quando la ragazza si svegliò, non poteva credere ai propri occhi. La sua casetta era perfettamente in ordine. Tutto era pulito, i mobili sembravano tornati nuovi, persino le piante erano cresciute di parecchio e avevano un aspetto rigoglioso e sano!
L’angelo si congedò, rischiò la vita almeno dodici volte per attraversare le strade sconosciute e si sedette in un caffè, ordinandosi la sua prima colazione sulla terra. Nemmeno a dirlo, finì per rovesciare il caffè quando si chinò ad accarezzare un gattino. Il barista rise e gliene offrì un altro, poi chiacchierarono un po’ e alla fine si offrì di ospitarlo per la notte.
La casa del barista era ordinata e pulita: erano i suoi sentimenti a essere tutti in disordine. Ma dopo aver ospitato l’angelo per la notte e aver parlato con lui, improvvisamente tutto gli fu chiaro e andò a riconciliarsi con la sua famiglia, con cui aveva cattivi rapporti da tempo.
L’angelo si congedò, rischiò la vita almeno dodici volte per percorrere ancora un po’ di strade e andò a sedersi vicino a suonatore di strada…
L’angelo distratto fece amicizia anche con lui, venne ospitato per la notte e in cambio gli lasciò nuove speranze e nuovo coraggio per la sua carriera musicale.
Proseguì così, l’avventura dell’angelo distratto sulla terra, e a tutti quelli che gli offrivano ospitalità, l’angelo finiva per risistemare la vita, con la magia del suo infinito amore per tutti gli esseri, umani, piante o animali che fossero.
C’è chi dice che sia ancora sulla terra. Sempre distratto e sempre al servizio di chi gli fa una gentilezza, per quanto piccola. Perché la bellezza della generosità e dell’amore continua ad annullargli tutte le distrazioni.
E chissà, forse senza saperlo lo avete incontrato anche voi…

venerdì 23 maggio 2014

La principessa del deserto

La principessa del deserto
C’è un’antica leggenda che viene raccontata tra gli abitanti  del Sahara.
Secondo la leggenda, un tempo nel vasto territorio che è oggi occupato dal deserto  fiorivano migliaia di giardini e la terra era fertile.
Ma gli uomini non rispettavano le leggi divine e la loro vita era costellata di decine di piccoli e grandi peccati.
Allora un giorno Dio disse agli uomini che, a partire da quel momento, avrebbe mandato sulla terra un granellino di sabbia per ogni loro peccato.
Gli uomini scioccamente pensarono “Che differenza potrà mai fare un granellino di sabbia?” e continuarono cocciutamente a peccare.
Così, un granellino di sabbia dopo l’altro, nacque il deserto del Sahara…


C’era una volta un giardino fiorente, in una terra lontana.
Era un giardino davvero bello, che un padre amorevole aveva voluto per la sua bellissima figlia, Suheila.
C’erano frutti dolcissimi di ogni tipo e fiori che nelle sere d’estate profumavano l’aria per miglia intorno. Le belle fontane rivestite delle più preziose ceramiche erano collegate da rivoli d’acqua gorgogliante che sembravano cantare.
Nel giardino passeggiavano stupendi pavoni dal piumaggio straordinario e sugli alberi vivevano gli uccellini dal canto più melodioso. Piccoli padiglioni ornati, tutti diversi, fornivano angoli di frescura per chi aveva voglia di riposare sui cuscini di seta.
Quel giardino era un paradiso in terra ed era protetto dagli sguardi e dagli intrusi da alte mura ornate.
Ma anche le cose più belle possono venire a noia e la fanciulla per cui era stato creato quel meraviglioso giardino se ne sentiva prigioniera e sognava solo di andarsene fuori, a vedere il mondo.
“Ma figlia mia,” le diceva il padre, “non troverai in tutto il mondo un luogo bello come questo.”
Suheila amava il padre, ma il desiderio di vedere quello che c’era fuori da quelle mura la consumava.
Infine, un giorno, scambiò i suoi ricchi abiti con quelli di una domestica e uscì per le strade della città. Non era abituata alla calca e alla libertà e ben presto si perse.
Vagò a lungo per le vie e un astuto mercante che la vide passare e ripassare si rese conto che si era perduta. Allora le si avvicinò e disse facendo finta di niente: “Ah, fa proprio caldo oggi. Meno male che ho una giara piena di acqua fresca, proprio lì.”
Suheila aveva in effetti una gran sete e ingenuamente gli chiese se poteva berne un poco anche lei.
L’astuto mercante acconsentì subito, dicendo: ”Bada, però, che non ho tazze. Dovrai bere direttamente dalla giara.” Inesperta com’era, la ragazza cadde nel tranello e si sporse all’interno della giara. A quel punto il mercante le diede uno spintone, chiuse il coperchio e caricò la giara su un cavallo veloce che partì al galoppo.
“Ben mi sta,” pensava Suheila chiusa dentro la giara. “Mi sentivo prigioniera dentro il mio bel giardino, e adesso sto rinchiusa dentro una giara.”
A quei tempi, ormai la sabbia aveva invaso gran parte di quei territori. Gli abitanti si stavano radunando tutti verso la città, ma la scarsità di risorse li rendeva sempre più astuti e sempre meno onesti, così i granelli di sabbia continuavano a moltiplicarsi e il deserto invadeva rapidamente ogni cosa.
Il mercante aveva intenzione di portare la ragazza a un mercato di schiavi in una città vicina, ma non sapeva che ormai il deserto l’aveva completamente cancellata.  Cercò e ricercò la strada, ma la città non c’era più.
Stava decidendo sul da farsi, quando si scatenò una tempesta di sabbia. Spaventato di farsi cogliere allo scoperto, voltò il cavallo per tornare a casa, ma la tempesta lo investì in pieno. Il vento soffiò per ore o per giorni, Suheila non avrebbe saputo dirlo, chiusa dentro la sua giara.
Quando finalmente il vento smise di ululare, la ragazza aprì piano il coperchio della giara e uscì fuori.
Intorno a lei c’era solo deserto.
Sabbia ovunque. Ma per fortuna in quel mare di sabbia spiccavano in lontananza le bianche mura del suo giardino.
Stupita, camminò in quella direzione. Non c’era alcuna traccia del mercante né della città. Solo il suo giardino era rimasto intatto, forse perché il padre era un uomo giusto e buono.
Alla fine, esausta, giunse a casa, si fece aprire e corse ad abbracciare il padre, scusandosi per la sua bravata.
Da allora, il giardino rimase l’unica oasi di verde in mezzo alla sabbia e la ragazza, che non volle mai più lasciarlo, divenne la protagonista di tanti racconti che narravano della misteriosa principessa del deserto.

La notte delle luci danzanti (seconda parte)

La notte delle luci danzanti (seconda parte)

“Il popolo fatato vi aiuterà,” disse infine.
Mentre le farfalle facevano strada attraverso la foresta illuminando il cammino, gli uomini elaborarono brevemente un piano d’azione. “Si fa come con la vecchia Banshee, d’accordo?” Gli altri annuirono. La ragazza dai capelli rossi li guardava, senza osare interrogarli.

“Ci serviranno delle funi” osservò Patrick dopo un po’ che avanzavano in silenzio.
“E una rete” proseguì Joseph rivolgendosi interrogativamente alla ragazza. Lei annuì e iniziò a cantare sommessamente.
Dopo un po’ un gruppo di farfalle avanzò portando delle funi dorate e una rete che sembrava anche quella intessuta di fili d’oro.
“Sono doni fatati”, disse la ragazza della foresta consegnandole agli uomini. “Non si possono spezzare, né con la forza né con gli incantesimi.”
“Perfetto!”  disse Martin spuntando per terra.
Adesso i suoni della battaglia tra i draghi si stavano avvicinando. Lo strano gruppo avanzò nell’oscurità senza fare il minimo rumore, fino a quando videro, alla luce delle sfere di fuoco, una casupola cadente addossata a una roccia. E sul tetto della casupola una figura scura, con le braccia sollevate e il volto rivolto al cielo.
La strega si stava dando da fare, per loro fortuna, così non li scorse mentre si avvicinarono alla casupola.
“Martin, vai avanti tu, che sei il più brutto,” disse Joseph tutto allegro prima di scomparire nell’ombra insieme a Patrick.
Martin sghignazzò e aspettò che tutti gli uomini fossero in posizione. Erano tutti talmente abituati a cacciare insieme che si capivano al volo senza bisogno di parole.
Appena tutto fu pronto, Martin si aggiustò un fagottino che teneva nella giubba e avanzò verso la casupola, completamente allo scoperto, con le braccia alzate e urlando con quanto fiato aveva in corpo: “Che tu sia mille volte benedetta, straordinaria creatura! Benedetta tu, benedetti i tuoi draghi, benedetta la tua casa!”
La vecchia sul tetto rimase come folgorata per un attimo, poi si sporse dal tetto. “Chi osa insultarmi lanciandomi benedizioni?” gracchiò.
“Io!” gesticolo Martin continuando ad avvicinarsi. “Mille benedizioni a te e a tutto quello che ti appartiene!”
La vecchia adesso era proprio arrabbiata. Si coprì le orecchie e poi lanciò un incantesimo dal bordo del tetto verso Martin, che però lo mancò.
“Benedetta, benedetta e benedetta,” continuava a urlare Martin e la vecchia giù a scagliargli incantesimi, che però non lo centravano mai.
Nella foga di colpirlo, alla fine la strega si dimenticò di essere sul bordo del tetto e avanzò di un passo, cadendo giù a capofitto proprio nella rete che gli uomini avevano disteso lì sotto. Velocissimi gli uomini strinsero la rete e gettarono i capi delle funi a Patrick e Joseph, che nel frattempo si erano arrampicati sul tetto.
La vecchia, imprigionata nella rete, iniziò a scagliare incantesimi in tutte le direzioni, ma poiché era in una rete fatata gli incantesimi non potevano uscirne e ricadevano tutti su di lei.
Alla fine, vedendosi impotente, chiamò i draghi in suo soccorso.
Erano davvero terribili. Creature immense, coperte di squame luccicanti e in grado di sputare fuoco dalle fauci.
Adesso gli uomini urlavano benedizioni tutti insieme, e questo gettava sia la strega che i draghi in una sorta di confusione furiosa.
I draghi, però, non volevano colpire la vecchia o la sua casa, così cercavano di spaventare gli uomini limitandosi a volar loro vicino. Sempre più vicino.
Quando un drago si avvicinò abbastanza al tetto, Joseph e Patrick lanciarono le funi che chiudevano la rete e le assicurarono velocemente al dorso del drago.
Al contatto con le funi fatate, il drago lanciò un urlo di dolore e si affrettò a volare lontano, portandosi via la rete fatata che conteneva la strega.
A quel punto anche le farfalle luminose entrarono in battaglia e in men che non si dica tutti i draghi scomparvero sconfitti oltre l’orizzonte.
Gli uomini iniziarono a ridere, scambiandosi pacche sulle spalle, mentre le farfalle luminose danzavano allegramente per aria.
“Non torneranno per un bel pezzo, adesso,” disse Patrick alla ragazza dai capelli di fuoco.
“Potrete vivere in pace.” 
“Così sarà” disse semplicemente la ragazza. “Ma devi spiegarmi una cosa. Come mai gli incantesimi della strega non hanno colpito Martin?”
“Ah, quello!” rise Patrick. “Martin ha l’abitudine di portarsi dietro uno strano amuleto. Tutti noi lo prendiamo in giro, ma questa volta ha avuto ragione.”
“Proprio così” disse Martin tutto soddisfatto, tirando fuori il suo fagottino dalla giubba. Lo svolse piano e lo mostrò alla ragazza.
Era una piccola zolla di terra, su cui cresceva un quadrifoglio.



Lo spunto di questa fiaba è nato da un'immagine che potete vedere sulla pagina facebook della Disfida delle fiabe.
Raffigura una foresta scura, con nuvoloni di tempesta che si allontanano all'orizzonte e una ragazza dai lunghi capelli rossi in cui sono infilate alcune lunghe piume. Farfalle e piccole sfere di luce volteggiano nell'aria intorno a lei. 
 

giovedì 22 maggio 2014

La notte delle luci danzanti (prima parte)

La notte delle luci danzanti (prima parte)


C’era una volta una grande foresta, laggiù nelle terre selvagge.
Era popolata da lupi e altre spaventose creature e nessuno voleva trovarsi al suo interno di notte. Solo i cacciatori ci andavano ogni tanto, sempre in gruppo e bene armati, quando la selvaggina era scarsa altrove.
Tra le tante leggende intessute su quella foresta, alcune dicevano che vi abitava una ragazza dai capelli di fuoco. Una strega, secondo altre.
Pochissimi l’avevano vista e solo per qualche istante, prima che si dileguasse tra gli alberi. Qualcuno diceva di averle visto delle ali piumate, altri sostenevano che la creatura emanava luce, di notte, come uno spettro.
Così non deve stupire, se il gruppo di cacciatori che quella notte si trovava nella foresta era molto nervoso.
Erano i cacciatori più abili della zona. Tra di loro c’erano Joseph il furbo, Martin il guercio, Patrick il poeta e molti altri.
Erano tutti seduti intorno al fuoco che avevano acceso, imprecando per il violento temporale e i tuoni che avevano fatto fuggire i cavalli mentre loro inseguivano una cerva.
Così, senza cerva e senza cavalli, si erano rassegnati a passare la notte sotto le nubi scure che minacciavano ancora temporale. 
La foresta odorava di pioggia, di conifere e di funghi, mentre gli uomini osservavano il cielo e speravano solo che spuntasse presto l’alba. L’argomento dei cupi discorsi intorno al fuoco erano le leggende sulla foresta maledetta. “Vi dico che è vero!” sosteneva Martin. “L’ho vista! È una strega orrenda, vi dico. I capelli sono come fuoco liquido e ha strane ali nere come la morte.”
“Martin, non ti accalorare. Se dici che l’hai vista, va bene,” cercava di calmarlo Joseph, che non aveva mai creduto alle leggende sulla foresta.
Patrick se ne rimaneva in disparte, silenzioso e  così fu lui a vederla per primo.
La ragazza, vestita di pelli di animali, aveva lunghi capelli rossi, in cui erano infilate diverse piume nere.  Era molto bella e avanzava scalza verso il bivacco dei cacciatori senza esitazioni.
Gli uomini erano talmente presi dai loro discorsi che non si accorsero di lei fino a quando Patrick non lanciò un fischio acuto e poi la indicò con un cenno della testa.
A quel punto si zittirono tutti e balzarono in piedi.
“Non potete stare qui, stanotte,” disse la ragazza.
“E dove dovremmo stare? Non abbiamo più i cavalli” replicò Joseph, il primo a riprendersi dalla sorpresa.
“Vi indico io la strada. Vi porto in un luogo sicuro.”
Gli uomini si guardarono l’un l’altro e si misero a discutere sottovoce tra di loro.
Perché avrebbe dovuto fidarsi di quella strana ragazza? La discussione si prolungò per diverso tempo, mentre lei aspettava pazientemente, ma a un tratto una palla di luce sibilò proprio accanto agli uomini, andandosi a schiantare su un albero vicino che prese immediatamente fuoco.
Gli uomini non ebbero nemmeno il tempo di chiedersi che diavoleria fosse mai quella, che altre sfere di fuoco sibilarono intorno, incendiando altri alberi.
“Presto!” disse la ragazza. “E’ cominciato!”
A quel punto tutti iniziarono a correre nella foresta. Alcuni a casaccio, in preda al panico o troppo spaventati per seguire la ragazza, ma Joseph, Martin, Patrick e pochi altri le tennero dietro.
Si muoveva per la foresta con un’agilità straordinaria e gli uomini dovevano faticare per tenere il passo, mentre le sfere di fuoco sibilavano da ogni parte intorno a loro.
Dopo una lunga corsa, la ragazza li guidò all’interno di una grotta.
“Ma che accidenti è stato?” chiese Martin dopo aver ripreso fiato.
“Draghi, naturalmente,” rispose la ragazza con una calma esasperante. “Ogni cinque anni, vengono qui a scontrarsi da ogni parte della terra. Gli abitanti della foresta la chiamano ‘La notte delle luci danzanti’. Non smetteranno fino all’alba.”
“Gli abitanti della foresta?” intervenne Patrick. “Davvero c’è gente che abita qui?”
La ragazza gli rivolse un sorriso un po’ condiscendente. “Perché, io cosa sarei, secondo te? Ma ce ne sono altri. Gente fatata, perlopiù. Ma anche la vecchia dei draghi. È lei a chiamarli.”
“E brava la vecchia dei draghi,” disse piano Joseph. “E non potrebbe evitarlo?”
La ragazza sospirò. “E’ una strega molto potente. Anche il popolo fatato ha paura di lei.”
Gli uomini si guardarono ghignando, comprendendosi al volo.
“Mi sa che abbiamo trovato qualcosa da fare per questa notte,” disse infine Martin.
“Volete sfidarla?” chiese la ragazza incredula.
“Non proprio sfidarla, diciamo ‘trasferirla’. Ci potresti indicare la strada? Sembra che la battaglia si sia spostata più in là…”
In effetti i boati sembravano essersi allontanati.
Uscirono tutti dalla grotta, fiutando l’aria, che adesso sapeva di bruciato.
La ragazza iniziò a cantare sommessamente e a un tratto moltissime farfalle luminose si avvicinarono. Nella notte, sembravano piccole luci sospese.
Una delle farfalle si posò sulla mano della ragazza, che le parlò a lungo sottovoce.
“Il popolo fatato vi aiuterà,” disse infine.
Mentre le farfalle facevano strada attraverso la foresta illuminando il cammino, gli uomini elaborarono brevemente un piano d’azione. “Si fa come con la vecchia Banshee, d’accordo?” Gli altri annuirono. La ragazza dai capelli rossi li guardava, senza osare interrogarli.


A domani per il finale della storia. 
 





Siamo a metà strada…



Veramente, oltre la metà. Tra una paio di settimane, sarà finita questa piccola follia della Disfida.
All’inizio vi dicevo che le idee sono bizzose, ma devo ricredermi.
La disciplina di sedermi ogni giorno alla stessa ora per scrivere la mia fiaba le ha rese molto più mansuete e disciplinate.
Le altre cartine di tornasole del cambiamento in atto sono le prime fiabe che ho scritto per  questa sfida: tutte le cose che cambierei, che scriverei in modo diverso.
Non ho regole generali da darvi, però posso raccontarvi nel modo più onesto possibile che cosa è vero per me.
Ho sempre pensato che qualunque forma di espressione creativa abbia delle virtù curative, anche il semplice decorare un piatto prima di servirlo a tavola.
Più una forma espressiva ci coinvolge, più ci regala benessere e equilibrio. È come avere una radice un po’ più profonda, che ci rende più stabili.

La scrittura, tra tutte le forme di espressione, ha le sue particolarità, che sono moltissime. Ci consente di essere onesti, almeno con noi stessi. Se continuiamo a lamentarci di qualcosa sulle nostre pagine del mattino e poi non facciamo niente per cambiare, ci tocca ammettere controvoglia che forse cambiare, in questo caso, non ci interessa. Ma anche questo è un passo in più verso la comprensione di come funzioniamo.
Credo di averlo già detto, ma per molte discipline orientali conoscere se stessi è la base di ogni cambiamento significativo. Anche il modo in cui si comportano i nostri personaggi, per quanto inventati, e in cui costruiamo una storia alla fine ci racconta qualcosa su di noi.

La scrittura di fiabe ha altre particolarità ancora. Nel linguaggio fortemente simbolico delle fiabe si abbattono tante barriere, si forzano molti blocchi. Se poi si lavora a questi ritmi, ogni giorno, non si ha proprio modo di essere troppo critici e si finisce per lasciar fluire.
E questo, almeno secondo Julia Cameron, è esattamente quello che dovremmo fare per recuperare la salute creativa.
Lasciare fluire. Non essere troppo critici, non cercare la perfezione a tutti i costi, ma accontentarsi di qualcosa di “abbastanza perfetto” e andare oltre. A volte i lavori imperfetti, quelli che Julia Cameron definisce i “brutti anatroccoli”, sono utili e necessari per fare meglio il lavoro successivo.
In questo periodo ho avuto modo di provarlo su di me. A volte una fiaba non mi piace, vorrei cambiarla, ma non ho tempo… però quella successiva è facile che scorra meglio, e allora non è tempo perduto.
Dentro di me, tutto questo lavorio di fiabe mi sta aiutando a tenere meglio l’equilibrio. Se qualcuno mi taglia la strada mentre sto guidando, mi arrabbio per un attimo e poi ritorno subito a pensare ad altro. Non ci rimugino sopra, non lascio che un piccolo imprevisto mi rovini la giornata.
Mi sono accorta che sorrido più spesso. Sono più felice. Ho una gran voglia di buttare via le cose vecchie che ho in casa e rimettere ordine.
Come se dare finalmente un po’ di respiro all’espressione mi facesse venir voglia di dare respiro anche alla mia casa e alla mia vita.
E voi? Vi sta cambiando questa piccola avventura? Vi è venuta voglia di risistemare un cassetto, di uscire a fare due passi invece di rimanere davanti alla televisione?
Se sì, ne sono contenta per voi.

La fiaba di oggi non parte da uno dei soliti spunti. Ho pensato di prendere un’immagine fiabesca e di lasciarmi trasportare dalla fantasia. Vedremo che cosa ne verrà fuori.
A più tardi!
Ma intanto, grazie per essere stati con me fino a qui.

mercoledì 21 maggio 2014

La leggenda della cicogna

Fiaba del 21 maggio.

 La leggenda della cicogna


C’era una volta una cicogna di nome Arturo, purtroppo per lei.
Doveva il suo nome a un certo pasticcio con un bambino che veniva, appunto, trasportato da una cicogna e che avrebbe dovuto chiamarsi Arturo, mentre invece per un po’ di confusione aveva finito col chiamarsi Ala Nera. Al bambino non dispiaceva tanto, quel nome così particolare, ma alla cicogna il fatto di chiamarsi Arturo proprio non andava giù.
In ogni caso ormai era fatta, così Arturo cercava di non pensarci mentre volava alta nei cieli del nord Europa.
Le piacevano molto quei villaggi di casette con i tetti a punta e gli alti comignoli, anche se ci poteva stare solo nella bella stagione, perché in inverno faceva un freddo tremendo e tutto si copriva di neve.
Allora Arturo, come le altre cicogne, se ne volava verso sud in cerca di climi più confortevoli.
O piuttosto, diciamo che lo aveva sempre fatto fino a quel momento.
Perché quell’autunno Arturo aveva una “consegna” da fare.
Le cicogne consegnavano da sempre i neonati alle famiglie e per millenni e millenni erano state sempre attente a non farsi scoprire.
I genitori trovavano i neonati, spesso all’ombra di un cavolo e quindi si diceva che i bambini nascessero sotto i cavoli.
Alle cicogne non dispiaceva. Loro avevano un patto stretto all’origine dei tempi, per cui dovevano essere le portatrici della nuova vita. Poi. se agli esseri umani faceva piacere credere che i bambini che loro portavano nascessero sotto i cavoli, a loro andava bene così.
L’importante era che nessuno scoprisse il loro segreto.
Ed era appunto quel segreto che stava trattenendo Arturo oltre il tempo previsto in quei climi freddi.
Stava aspettando il “segnale” per andare a prendere un bambino e consegnarlo a casa dei genitori. Poi si sarebbe affrettata a raggiungere le altre cicogne in climi più caldi.
Ma il “segnale” tardava e tardava e tardava. Era già scesa la prima lieve nevicata e faceva sempre più freddo.
Arturo passava le notti accoccolata nel suo nido in cima a un albero, sognando il sole…
Alla fine il “segnale” arrivò, ma per suo sfortuna durante la prima tormenta di neve della stagione.
Arturo si gettò nella Fonte della Vita per prendere il neonato e immediatamente le goccioline d’acqua le si ghiacciarono sulle piume.
Per fortuna, non doveva andare molto lontano.
Affrontò coraggiosamente la tormenta e depositò il suo prezioso carico sotto un cavolo, pensando: “Appena smette questa nevicata, me ne volo al sud!”
Ma subito ricevette un altro “segnale”.
Altro volo nella neve e intanto si era fatto buio.
Tanto buio che non si accorse dello strato di ghiaccio che ricopriva il giardino e, invece di atterrare elegantemente come era abituata a fare, prese uno scivolone pazzesco e si ammaccò una zampa e un’ala. Era lì mezzo stordita da quell’incidente quando i nuovi genitori aprirono al porta di casa.
Arturo volò come poteva sul tetto e cercò di nascondersi dietro al comignolo, così si accorse che quel comignolo era caldo! Caldo come le sabbie delle terre del sud.
Seppur ferita, riuscì a intrecciare qualche fuscello e a farsi un nido, che sistemò proprio su quel comignolo.
In realtà, qualcuno da terra poteva vederla, ma era esausta e dolorante e pensò che non faceva male a nessuno.
Il comignolo rimase caldo per diversi giorni, perché i genitori di un neonato tenevano sempre ben riscaldata la sua cameretta. Così Arturo riuscì a guarire perfettamente, ma arrivò un altro “segnale2 e poi un altro e poi un altro.
Essendo l’unica cicogna rimasta in zona, Arturo fu indaffarata per tutto l’inverno a consegnare bambini e ogni volta, per trovare un po’ di conforto dal freddo, finiva per fare il nido sul comignolo che si trovava sulla stanza del neonato, che rimaneva  sempre caldo di giorno e di notte.
Ben presto, gli abitanti di quella zona si accorsero che ogni volta che arrivava un nuovo bambino la cicogna faceva il nido sul tetto di quella casa e iniziarono a chiedersi se, per caso, quella storia che i bambini nascevano sotto i cavoli non fosse falsa.
All’arrivo della primavera, in quella zona tutti avevano ormai capito che i neonati li portano le cicogne, e l’antico segreto fu infranto.
Ma le altre cicogne, scoprendo che Arturo era rimasta al freddo per tutto l’inverno, non ebbero cuore di rimproverarla e da quel giorno, immaginando le sue ali ricoperte di neve e di ghiaccio, le mutarono il nome in Ala Bianca.


martedì 20 maggio 2014

La pensilina del bus 53

Non avevo molta voglia di scrivere questa fiaba, a dire il vero, ma poi è finita che mi sono divertita un a sacco.

La pensilina del bus 53

Era una piovosa sera primaverile, quando Strega Marletta si rifugiò tutta fradicia di pioggia sotto la pensilina del bus 53.
Ma… era una sua impressione, o quella pensilina si era davvero protesa un po’, come per andarle incontro, come per ripararla meglio?
Strega Marletta si scrollò gli abiti inzuppati e si tolse il cappello. Certo, spostarsi volando su una scopa era comodo, ma quando iniziava a piovere davvero forte era meglio un bell’autobus.
Adesso, poi, il vento faceva cadere la pioggia tutta di traverso e lei si bagnava anche se era sotto la tettoia… Ma ecco che la pensilina si protendeva un po’, per ripararla meglio.
Questa volta ne era proprio sicura! Aveva visto bene!
“Oh, bella questa,” disse Marletta scoccando un incantesimo affinché la pensilina potesse parlare. “Ma che cosa mi combini, tu?”
“Scusa…” disse timidamente la pensilina. “E’ che non riesco a resistere. Quando vedo le persone in difficoltà, è più forte di me…”
“Sei davvero una brava pensilina,” la incoraggiò Marletta. “Si vede che fai per bene il tuo lavoro e chissà quante ne vedi…”
“Oh, sì,” rispose la pensilina infervorandosi. “Io vedo un sacco di gente! Vedo chi va al lavoro, chi va a scuola, chi va a passeggio… Vedo le persone tristi, quelle allegre, quelle che hanno smesso di chiedersi come si sentono. Non hai idea di tutte le cose che sa una pensilina!”
“Inizio a rendermene conto,” disse Strega Marletta lanciando un’occhiata al display di attesa. Mancavano 15 minuti all’arrivo dell’autobus 53. C’era tutto il tempo per fare una bella chiacchierata.
Si fece comparire una bella cioccolata calda, si accomodò tranquillamente sul sedile e proseguì: “Ma non ti senti un po’ sola?”
“Io?” si stupì la pensilina “Ma scherzi? Io sto in mezzo alle persone dalla prima corsa del mattino fino all’ultima della notte. E poi, anche quando non passano più gli autobus, posso offrire riparo a persone e animaletti sperduti. Veramente non sto da sola quasi mai. E poi, anche quando non c’è nessuno, ho le tante storie che ho visto a tenermi compagnia.”
“Dai, racconta!”
“Sono moltissime, non saprei da dove cominciare… Ah sì, potrei raccontarti di quella volta che una bella ragazza dimenticò un piccolo ombrello, di quelli pieghevoli, proprio dove sei seduta tu. Dopo un po’ arriva un bel giovane, si siede e guarda l’ombrello. Lo solleva, lo osserva, e alla fine se lo porta via. Da allora, tutte le sere viene qui più o meno alla stessa ora, anche se c’è bel tempo. Si siede lì e aspetta. Osserva il via vai delle persone, zitto zitto, e dopo un po’ se ne va.”
“E poi?”
“E poi viene il bello! Una sera, scoppia un temporale. Pioveva che non ti dico! Arriva di corsa una ragazza che si sta bagnando tutta. Lui la vede arrivare da lontano e le corre incontro tenendo aperto il piccolo ombrello per ripararla. Corrono fin qui, si riparano sotto di me e lei si stupisce, perché riconosce il suo ombrello! Parlano seduti uno accanto all’altra. Passa un autobus, ne passa un altro e loro sono sempre qui a parlare. Alla fine, se ne vanno tenendosi per mano.
Sai che si sono voluti sposare qui?  Mi avevano tutta coperta di nastri e fiori, avessi visto come ero bella!”
Strega Marletta, che era una gran romanticona, bevve un sorso di cioccolata per mascherare la commozione e poi si schiarì la voce. “E poi?”
“E poi potrei raccontarti di quel cucciolo di cane bellissimo, ma piccolo piccolo, che si veniva a nascondere qui per dormire, avvolto in un pullover caduto per terra a qualcuno. Si metteva in quell’angolo, vedi? E io vedevo sempre un signore tutto solo, che quando vedeva i cani sospirava, e speravo tanto che quei due si incontrassero, il signore e il cagnolino, perché starebbero stati proprio bene insieme. Ma non si incrociavano mai. Così… be’, questo non dovrei dirtelo, ma una sera ho fatto lo sgambetto al signore."
”Cosa?”
“Eh sì. L’ho fatto inciampare. Ha sbattuto un ginocchio per terra e ha anche imprecato, ma poco. Poi si è seduto a massaggiarsi il ginocchio, che si stava gonfiando come una zucca. Così era ancora qui, quando è arrivato il cagnolino.”
“Ma poi?”
“Me lo sentivo, che sarebbero andati d’accordo quei due e infatti adesso sono inseparabili. Li vedo spesso passare, il cane con il suo bel collarino rosso e il signore tutto allegro. E non saprei dire chi dei due è più fiero di farsi vedere in compagnia dell’altro!”
Ormai l’autobus 53 stava arrivando e Marletta, controvoglia, si alzò e fece sparire la tazza della cioccolata. “Ma dimmi,” chiese infine, “ti dispiacerebbe se ogni tanto ti venissi a trovare? Così, solo per fare due chiacchiere…”
 “Mi troverai sempre qui,” rispose la pensilina con quello che sembrava un piccolo cenno d’assenso.
Marletta si arrampicò sull’autobus, tutta assorta nei racconti che aveva appena sentito. Al punto che si dimenticò completamente di annullare l’incantesimo che permetteva alla pensilina del bus 53 di parlare!



Buonanotte. A domani.

lunedì 19 maggio 2014

La bicletta-cavallo

   Un altro giorno, un'altra fiaba...

La bicicletta-cavallo


C’era una volta una mamma, come ce ne sono tante, sempre indaffarata tra mille cose da fare. Sonia, così si chiamava questa mamma, amava andare in bicicletta e aveva montato un bel seggiolino rosa per la sua bambina, Simona.
Sonia era una di quelle belle persone che sono eccezionali senza saperlo, gentile con tutti e con la natura.
Amava le piante e il giardinaggio e, per divertire Simona, aveva disseminato il loro giardino di piccoli buffi gnomi che reggevano lampade che si illuminavano di notte. Su un albero aveva sistemato una bella casetta per gli uccellini, che in inverno non mancava mai di rifornire di buon becchime.
In alcune sere dell’anno, Sonia per tradizione sistemava in fondo al giardino quelli che lei chiamava “i cesti delle offerte”.
Erano due, questi cesti. In uno sistemava abiti caldi, coperte e cibo per gli esseri umani, nell’altro, le offerte per i piccoli abitanti del bosco vicino: frutta secca, granaglie, qualche ciuffo di fieno, fili di lana morbida da intrecciare nei nidi, scampoli di stoffa soffice e calda per rendere più confortevoli le tane di chissà quali animaletti.
Per Sonia, questo era un modo per rendersi utile agli altri.
Immancabilmente, al mattino dopo i cesti erano vuoti e lei era contenta di aver potuto aiutare qualcuno.
In quella sera d’inverno, Sonia stava trascinando i suoi “cesti delle offerte” in fondo al giardino, con Simona che la seguiva nel buio ormai fitto. Simona, in effetti, indicava uno gnomo del giardino, dicendo “Gnomo! Gnomo!”, ma la mamma non ci fece caso. Non si accorse che, proprio quella sera, nel giardino c’era uno gnomo in più che osservava attento i suoi movimenti.
Lasciati al solito posto i cesti, Sonia prese in braccio la bimba e si affrettò a ritornare al calduccio dentro casa.
Dal giardino, gli occhi attenti dello gnomo videro accendersi le luci nella camera della bimba, la mamma passare davanti alla finestra con in mano un libro di fiabe e poi, pian piano, tutte le luci della casa spegnersi una dopo l’altra.
Quando tutto fu tranquillo, il piccolo gnomo si avvicinò ai cesti. C’era un bel pullover caldo della sua misura che doveva essere stato di Simona, perché odorava di bimbo. C’erano dei biscotti fatti in casa e una copertina morbida che era proprio l’ideale per il suo letto.
Intanto, si erano avvicinati silenziosamente ai cesti alcuni timidi cerbiatti che avevano preso il fieno, scoiattoli nervosi che si erano serviti di frutta secca, altre bestiole che avevano preso quello di cui avevano bisogno.
Poi dei passi pesanti risalirono la strada e gli animali tornarono nel bosco, seguiti dallo gnomo.
Da lontano videro  un uomo malconcio e infreddolito che sollevava dal cesto un bel giaccone pesante e del cibo.
Fu a quel punto, che gli animali riuniti iniziarono a dire: “Bisogna proprio ringraziarla, quella mamma. Con la sua gentilezza ci aiuta a superare i momenti peggiori dell’inverno…”
“Ci penso io!” disse a quel punto lo gnomo, che aveva già un’idea.
Il mattino dopo, lo gnomo era in attesa vicino alla strada, ben nascosto tra i rami di un abete altissimo.
Sonia passò pedalando a tutta birra - perché erano in ritardo - con Simona ben sistemata sul seggiolino rosa e con una sciarpa di lana svolazzante che le copriva quasi tutto il faccino.
Lo gnomo colse l’attimo e lanciò il suo incantesimo, sapendo che ci avrebbe messo un po’ per fare effetto. Sonia non si accorse di nulla, a parte un certo pizzicorino al naso che attribuì all’aria fredda del mattino. Pedalava di buona lena e, dopo aver portato Simona all’asilo, riprese la bicicletta e la posteggiò quasi nel centro paese, recandosi a fare le numerose commissioni  che aveva sulla lista.
Doveva passare in lavanderia, comprare il latte, andare in comune… insomma le solite infinite cose di cui si occupano le mamme.
Quando finalmente ebbe terminato, tornò alla sua bicicletta e… vide un cavallo, bellissimo, che le andava incontro come per salutarla.
Non era possibile! Quel cavallo aveva qualcosa di familiare, ma…
Sonia cercò con lo sguardo la bicicletta, che però non era più dove l’aveva lasciata. Nel frattempo il cavallo si era avvicinato ancora e le dava colpi affettuosi con il muso, come per invitarla.
A quel punto Sonia alzò gli occhi e vide che sulla sella del cavallo era montato il seggiolino rosa di Simona!
Il cavallo la lasciò montare in sella e a quel punto Sonia vide che, intrecciata al seggiolino, era rimasta la sciarpa della sua bambina, annodata in modo da formare un bel fiocco. A quel punto non ebbe più dubbi e si diresse verso casa.
Cavalcare non era faticoso come pedalare e ben presto acquistò sicurezza e si lanciò al galoppo.
Rimase però piena di dubbi per tutto il giorno, facendosi mille domande.
Ma il giorno dopo, quando vide che la criniera del cavallo era tutta intrecciata in minuscole treccine, capì che c’erano di mezzo gli gnomi e finalmente si diede pace.
Perché anche lei sapeva che gli gnomi, di notte, spesso intrecciano finemente le criniere dei cavalli.
Da quel giorno, Sonia accettò quel dono inaspettato e diventò ancora più generosa con i suoi cesti delle offerte, suggellando così un’amicizia con gli gnomi e gli animali del bosco che poi passò a sua figlia e alla figlia di sua figlia e alla figlia della figlia di sua figlia… e che dura ancora oggi.   
         

domenica 18 maggio 2014

La scatola di gomme

La fiaba di oggi, 18 maggio, è dedicata a Edo!



La scatola di gomme

C’era una volta un bambino di nome Edoardo, Edo, per gli amici. Per il suo compleanno, Edo se ne era uscito con una richiesta un po’ strana: una scatola di gomme per “scancellare”. Quelle che si usano a scuola.
Alla faccia stupita e alle domande perplesse dei genitori, Edo aveva risposto semplicemente facendo spallucce: “Così…”
E adesso stava andando a scuola con la sua bella scatola piena di gomme di ogni forma e colore, contento e felice. Ce n’erano di molto comuni, di grandi, di piccole, più morbide o più dure, con forme fantasiose e persino profumate. Adesso sì, che si sentiva attrezzato per affrontare il mondo!
Passando sotto un salice, vide un ramo spezzato che penzolava tristemente. Le foglie erano quasi del tutto appassite, ma ancora vive. Edo pensò che era una buona occasione per mettersi subito all’opera: tirò fuori dalla sua scatola una bella gomma verde e cancellò la frattura alla base del ramo. Le foglie ripresero subito vita e il salice lo salutò agitando quel ramo mentre Edo si allontanava verso la scuola.
C’era una custode, in quella scuola, che aveva sempre l’aria scontenta. La sua bocca aveva sempre gli angoli rivolti all’ingiù, come una mezzaluna penzoloni sulla faccia.
Edo, confuso in mezzo agli altri bambini, tirò fuori senza farsi vedere una gomma a forma di sorriso e da lontano cancellò quegli angoli in giù. Miracolo! La custode iniziò a sorridere!
Saltellò tutto felice fino alla sua classe, sedette al suo banco e ci posò sopra la sua scatola piena di gomme.
La sua maestra era brava e gentile, ma aveva sempre un velo di tristezza in fondo agli occhi, e Edo era ben deciso a farlo sparire. Scelse una candida e morbida gomma pane, per farlo.
Pian piano la maestra si rilassò e continuò a spiegare con l’aria serena e allegra.
Le gomme di Edo stavano proprio funzionando!
Solo quella mattina, cancellò la delusione di una compagna per un compito che non le era riuscito molto bene, la prepotenza di un bambino durante la ricreazione e metà della sua merenda, che non aveva voglia di mangiare.
L’intuizione di Edo era stata a dir poco geniale: a volte, per migliorare le cose, non c’è bisogno di aggiungere nulla. Basta semplicemente togliere!
Edo le consumò tutte, quelle gomme. Per togliere le macchie di fango dai vestiti, in modo da non far inquietare la mamma, per far scomparire quella ruga di preoccupazione che a volte compariva sulla fronte del papà, per cancellare sbucciature dei ginocchi e le parti bruciacchiate delle patate al forno.  Ma anche le delusioni, i piccoli dispiaceri, le parole pronunciate sbadatamente di cui ci si pente non appena dopo averle pronunciate.
Alla fine, di tutte quelle gomme rimase solo un pezzetto di una gomma che profumava di vaniglia, consumata fino ad assumere la forma di un piccolo cuore.
Edo, ormai,  aveva cancellato tutto quello che poteva cancellare, e quella gomma la doveva tenere per qualcosa di speciale, se lo sentiva.
La mise nella scatola e la dimenticò per molti molti anni.
Fino a quando, teso e emozionato, dovette radersi il viso per la prima volta.
Ormai era un ragazzo grande e forte e quella sua prima barba era il simbolo del suo ingresso nell’età adulta.
Il papà gli mostrò come fare e la mamma, guardandolo, si lasciò sfuggire una piccola lacrima di commozione.
Fu allora che Edo ricordò la sua gomma profumata di vaniglia.
Con quell’ultimo pezzetto, cancellò la lacrima della mamma. E lei capì in quell’istante che Edo era sì, cresciuto, ma quel bambino meraviglioso che era stato c’era ancora. Con la sua bizzarra mania per le gomme e tutto il resto.
Edo continuò a crescere, diventò un brav’uomo e un bravissimo papà, ancora e sempre capace di cancellare con una frase scherzosa e una carezza un muso lungo o una lacrima dei suoi bambini. Perché Edo era sempre Edo.
Ma questa è un’altra storia.  
  







Queste sono le fiabe che preferisco scrivere, su suggerimenti che vengono da voi. 
Grazie Edo e grazie ai genitori di Edo.
 
 

sabato 17 maggio 2014

Gita a Feeria II - I fulmini

Gita a Feeria II – I fulmini

Avevo promesso di parlarvi dei “fulmini”, intesi come segnali che siamo sulla strada giusta nel processo creativo e nella scoperta del mondo incantato.
Per Julia Cameron, i fulmini sono, sì, spaventosi, ma sono quelli che in qualche modo ci rischiarano il cammino.
Per spiegarmi meglio, devo andare un po’ lontano nel tempo.
Fino alla distruzione dell’antica biblioteca di Alessandria, che nell’antichità conteneva la più grande raccolta di sapere umano. Quando la biblioteca andò distrutta in un incendio, dice la leggenda, i più grandi sapienti si riunirono per vedere come salvare tutta quella conoscenza.
Non c’era modo di riscrivere tutti i testi a memoria, anche considerando che la memoria con il tempo si sarebbe affievolita.
Allora decisero di condensare la conoscenza in simboli. Simboli complessi in grado di racchiudere in un’immagine tutto quello che era importante ricordare.
Sempre secondo la leggenda, in questo modo nacquero gli Arcani Maggiori dei Tarocchi, ossia quelle 22 carte, o “lame”, che da secoli vengono studiate per scoprirne i numerosi significati.
Ora, la sedicesima carta, la Torre, è quella che ci interessa qui.
Raffigura una torre colpita da un fulmine. In molti casi due figure cadono dalla torre a testa in giù.
Per quanto possa sembrare un’immagine spaventosa, il significato tramandato per questa carta è molto positivo: raffigura quello che di vecchio si deve lasciare andare per costruire qualcosa di nuovo.
Muovendosi nel mondo dei simboli, si impara presto che esistono numerosi livelli di significato, ma il confronto più evidente che si può fare è quello con il comune modo di pensare, considerando come quello che noi crediamo vero o possibile può influenzare in modo molto tangibile la nostra vita.
Numerosi psicologi hanno approfondito questo tema, finendo per concordare sul fatto che spesso è necessario abbandonare un vecchio modo di pensare (la torre colpita dal fulmine) per poterne costruire uno nuovo, più sano e più vantaggioso per noi.
Ok adesso ci siamo, arriviamo ai fulmini. Il fulmine, per sua natura, illumina. Tradotto nei processi mentali, è quell’istante in cui si vedono le cose con una chiarezza inusuale. A volte questo modo di vedere situazioni consuete sotto una nuova luce innesca inevitabilmente dei cambiamenti positivi.
Ora, questo è proprio quello che molto spesso fanno i processi creativi e, in modo particolare, le fiabe.
Perché succede? Perché le fiabe ci portano  a vedere le cose in modo completamente diverso dal solito. Il figlio di un povero mugnaio diventa proprietario di terre e ricchezze e sposa la figlia del re nel Gatto con gli stivali. Ancora la figlia di un mugnaio diventa regina nella storia del nano Tremotino. Nella Serpe bianca, un semplice valletto conquista ricchezze, onori e (di nuovo) la figlia del re.
Nelle fiabe, l’impossibile diventa possibile.
Ok, ma sono fiabe, direte voi.
Sì. Ma quel senso di “possibilità”, ci rimane appiccicato addosso esattamente come la polvere di fata e, quando torniamo alle nostre faccende, è facilissimo che ci venga un’idea che non ci era mai venuta prima e che risolve egregiamente la situazione, il problema, l’impasse. Ecco, i “fulmini” sono questo. Una luce improvvisa che ci fa vedere aspetti della faccenda che non avevamo considerato, rendendoli chiarissimi. A volte sono piccole cose, come un modo diverso di sistemare gli oggetti che abbiamo in casa o per svolgere in modo più rapido e efficiente un lavoro consueto. 
Altre volte sono lampi che ci mandano letteralmente sottosopra come le figurine dei tarocchi, facendoci cambiare radicalmente prospettiva su qualche aspetto della nostra vita.
Provate a farci caso: dopo la lettura o la scrittura delle fiabe, succede spessissimo.
Significa che siamo sulla strada giusta. Che ci stiamo avvicinando al mondo incantato.
Certo, cambieremo. Ma in meglio, ve lo assicuro.









Oltre la cascata

Fiaba del 17 maggio

Oltre la cascata

Serena aveva lavorato parecchio, in quel giorno d’inverno. Come fata della brina, si era occupata di disegnare finissimi decori ghiacciati sui bordi delle foglie, sull’acqua degli stagni, sui fili d’erba e sui vetri delle case. Non vedeva l’ora di oltrepassare la cascata e riposare un po’ nella sua accogliente casetta, ma un suono lamentoso l’attirò verso una piccola conca coperta di foglie secche.
Si avvicinò incuriosita e vide una gattina grigia col musetto bianco, piccola piccola, che miagolava tutta sola.
- Povera gattina, disse Serena. - Ti sei persa? Come ti chiami?
- Non so se mi sono persa, disse la gattina. - Ero in una casa calda con la mia mamma e all’improvviso qualcuno mi ha portato qui. Ho freddo e fame. Mi chiamano Batuffolo.
In effetti la micina aveva tutta l’aria di un batuffolo, per tanto era soffice, e Serena ne fu subito conquistata.
- Puoi venire con me, non temere. Con quelle parole sollevò Batuffolo e se la tenne stretta al petto, coprendola con il proprio mantello.
 Dopo un breve tratto di strada attraverso i boschi, arrivano a una cascata, che però era tutta ghiacciata.
Serena si diresse verso quel muro di ghiaccio e lo attraversò.
Dall’altra parte, c’era la sua casa. Un grotta scavata nella roccia, con tutte le pareti e il pavimento ricoperti di soffice muschio. Serena aveva un grande senso artistico, quindi aveva sistemato qua e là ciuffi di fiori profumati che scendevano dalle pareti come minuscole cascate di petali. In un angolo c’era un camino scavato nella pietra in cui ardeva un caldo fuoco e poi c’erano i pochi mobili di cui può avere bisogno una fata: un letto foderato di petali di rosa per dormire, con una coperta tessuta appositamente per lei dai bachi da seta, calda e leggera; un grande baule di legno di cedro profumato, intagliato per lei dal popolo dei nani con disegni fini e delicati come quelli che Serena faceva con la brina, in cui riporre gli abiti e le altre cose; infine una sedia a dondolo di giunco intrecciato.
Da una piccola madia, la fata prese il calice di un fiore e versò un po’ di latte che offrì a Batuffolo.
La gattina si guardava intorno stupita, annusando tutto, ma accettò volentieri il latte. La fata versò un po’ di nettare caldo per sé in un altro calice di fiore e bevve pensosa.
Con l’arrivo di Batuffolo avrebbe dovuto cambiare alcune cose, affinché la gattina potesse sentirsi a suo agio. Aprì il baule e tirò fuori i petali di rosa che teneva da parte, con cui rapidamente confezionò un cuscino morbidissimo e profumato per la bestiola, che ci si accoccolò subito felice.
In breve, Serena e batuffolo divennero inseparabili.  
Dove c’era una, c’era anche l’altra, che giocava a rincorrere i disegni di brina che Serena stendeva sulle cose.
Passò così l’inverno e durante l’estate le due giocavano spensierate nei boschi. Ma un bel giorno Serena sentì venirle meno le forze. Era sempre bellissima, ma era una fata di diverse centinaia di anni e sentì che stava venendo per lei il momento di andarsene.
Ma che fare di Batuffolo?
Un giorno, intimò alla gatta, che ormai era cresciuta, di aspettarla a casa perché doveva fare una cosa importante.
Batuffolo ci rimase male, ma si accoccolò sul suo cuscino di petali di rosa e attese.
Quando Serena ritornò attraverso la cascata, però, batuffolo continuò a fare l’offesa e le dava le spalle, senza degnarla della minima attenzione.
- Suvvia, Batuffolo! disse infine la fata. Non potevo portarti con me, perché dovevo andare a parlare con la Regina delle fate del tuo futuro. Ho grandi notizie, per te. Diventerai una fata anche tu!
A quelle parole Batuffolo mise da parte il suoi sentimenti feriti e si volse a guardare la fata con attenzione. Serena, con un sorriso, recitò le formule e gettò su Batuffolo un po’ di polvere magica che la fece starnutire. E Batuffolo si mutò. Si mutò in una fata bellissima, con orecchie da gatta e il viso ornato da un pizzo finissimo di brina.
Serena la guardò orgogliosa. Non avrebbe potuto sognare per succederle una fata più bella di così.
Così batuffolo diventò la nuova fata della brina, mentre Serena si ritirò a riposare nel luogo in cui riposano le fate, facendo frequenti visite a Batuffolo.
Se tenete gli occhi aperti nelle notti d’inverno, potreste anche vederla, Batuffolo, con le sue orecchie da gatto, che disegna sottili decori di brina, a volte persino in compagnia di Serena.    


Vi ricordo che questa e le altre fiabe giornaliere partecipano alla Disfida delle Fiabe sulla pagine Facebook dedicata. Se vi piacciono, votatele con un "Mi piace" e ditelo ai vostri amici!
 

venerdì 16 maggio 2014

La casa delle fiabe


La casa delle fiabe

C’era una volta una bambina di nome Elena che si stava annoiando molto, seduta sull’altalena nel giardino della nonna.
In quella tranquilla casa di campagna non c’erano altri bambini con cui giocare, era quello il problema. Le piaceva trascorrere con la nonna parte delle vacanze estive, mentre i genitori lavoravano in città, ma senza nessuno con cui giocare… diventava una noia.
Si avviò sul fondo del giardino, dove aveva visto spuntare delle violacciocche. Magari poteva farne un mazzolino. Ma quando arrivò alle violacciocche vide qualcosa che luccicava in lontananza.
Aveva una curiosità di andare a vedere…
Ma perché no? Superò veloce la palizzata che delimitava il giardino e seguì il sentierino tra i campi.
A luccicare in quel modo sotto il sole era il pomello di una porta! Posato così, per terra, in mezzo alla campagna. Doveva essere d’ottone, ma luccicava come oro sotto il sole.
Elena voleva raccoglierlo, ma era ben fisso al suolo. Provò a ruotarlo, ma all’improvviso il suolo cedette sotto i suoi piedi e la bambina cadde sottoterra.
Guardando in alto, si accorse che quella che si era aperta era una porta.
Non aveva senso, ma quando cercò di rimettersi in piedi, si accorse che cadeva sulla parete di sinistra, come se la gravità avesse cambiato direzione. Quando finalmente riuscì a mettersi in piedi sulla parete, constatò che l’apertura da cui era caduta dentro era proprio di una porta, che dava direttamente sul cielo.  
Avrebbe potuto uscire agevolmente, ma quel luogo la incuriosiva troppo.
Si guardò intorno e vide numerosi scaffali ricoperti di libri. Ne prese uno dall’aria malconcia e scoprì che era la fiaba di Cappuccetto Rosso, con illustrazioni bellissime che non aveva mai visto prima. Cappuccetto Rosso era disegnata tanto bene da sembrare viva e infatti scivolò giù dalle pagine del libro scrollandosi la mantellina, poi guardò Elena con aria interrogativa prima di dirle: “Dai, chiudi, prima che esca anche il lupo!”
Elena chiuse il libro di scatto, intanto che Cappuccetto Rosso attraversava la stanza a tutta velocità e spariva dietro una porta. Incuriosita più che mai, Elena le andò dietro e scoprì una stanza interamente ricoperta di zucchero e cioccolato. Al centro della stanza, una tavolo che sembrava di cioccolato e due sedie dello stesso materiale, con cuscini di morbido pan di Spagna.
Cappuccetto Rosso era seduta comodamente e si stava servendo da una caraffa un’abbondante tazza di latte mentre addentava una ciambella presa da un vassoio ricolmo. Elena stava per dire qualcosa, ma da un’altra porta entrò un gatto che indossava un grande paio di stivali, che si mise tutto contento a bere il latte dalla tazza.
A Elena girava un po’ la testa, ma voleva vedere che cosa c’era oltre la porta da cui era uscito il Gatto con gli stivali.
La aprì e si trovò in un giardino bellissimo, profumato di fiori d’arancio e gelsomino, pieno di alberi da cui pendevano frutti d’oro.
Stava per coglierne uno, ma una fata dall’aria simpatica le comparve accanto.
“Io non lo farei, se fossi in te,” le disse con un sorriso. “Fa arrabbiare l’orco.”
“L’orco?” chiese Elena. “Ma che posto è questo?”
La fata sedette su una panca di cristallo e fece segno a Elena di sedersi accanto a lei. “Questa è la casa delle fiabe,” disse la fata. “Il posto in cui stiamo in attesa che qualcuno legga le nostre storie.
Adesso i genitori sono sempre impegnati, i bambini hanno tanti altri passatempi e noi stiamo diventando un po’ irrequieti.
In quel momento Elena si rese conto che la panca su cui erano sedute era in realtà una bara di cristallo e all’interno giaceva Biancaneve addormentata.
Guardando in lontananza, vide un castello incantato, in cui, ne era sicura la Bella Addormentata era immersa nel sonno…
Le tornarono in mente le storie che la nonna le leggeva quando era più piccola e le venne una gran nostalgia.  “Come si può fare?” chiese.
“Leggendoci, raccontandoci….” La fata stava lentamente sbiadendo, come tutto il resto.
Elena si trovò di nuovo sul sentierino in mezzo ai campi. Corse verso casa, dove la nonna la stava aspettando con la cena pronta in tavola. “Dove eri finita? Iniziavo a preoccuparmi…”
Elena corse alla libreria a prendere il vecchio libro delle fiabe e lo posò sul tavolo. “Nonna, dopo cena, ti andrebbe di leggermi qualche fiaba?”
“Ma certo. Inizio subito, se ti fa piacere.”
La nonna prese il grande libro e lo aprì. A Elena sembrò quasi di sentire uno sbuffo del profumo del giardino dai frutti d’oro. E la nonna iniziò: “Cera una volta…”

giovedì 15 maggio 2014

Il cervo bianco

Giorno nuovo, fiaba nuova!

 Il cervo bianco

Bianca era uscita dal castello in tutta fretta. Non voleva dare alla cuoca la soddisfazione di vederla piangere.
Era vero, lei era solo una sguattera, ma non c’era motivo di farle tante cattiverie!
Avanzò veloce fino al bosco, fino a quella grande quercia che le ricordava la sua casa lontana, si accoccolò tra le sue radici stringendo le gambe con le braccia e diede sfogo al suo dolore. Pianse a lungo, scossa dai singhiozzi.
Sentiva la mancanza della sua famiglia lontana, delle carezze di sua madre, dei chiacchiericcio dei suoi fratelli e sorelle.
Le avevano detto che era una fortuna, che la volessero a lavorare al grande castello, ma Bianca sentiva la nostalgia di casa e quella vecchia strega di una cuoca non perdeva occasione per umiliarla e maltrattarla.
A un tratto, sentì uno strano rumore. Come un fruscio del vento, ma più setoso. Dal nulla, le comparve dinanzi un cervo maestoso, con un enorme palco di corna e dal manto completamente bianco.
Bianca rimase a osservare l’animale, che a sua volta la fissò a lungo prima di sparire tra gli alberi.
La fanciulla rimase a osservare il punto in cui il cervo era sparito, sperando che tornasse. Come era bello!
Così non vide arrivare la dama che a un tratto trovò al suo fianco e che le disse: “Cosa aspetti? Andiamo.”
Bianca non aveva mai visto quella dama. Era alta e fiera, di una bellezza sovrannaturale, e la sua pelle candida brillava come una perla nell’acqua.
Si alzò asciugandosi le lacrime dal viso e finalmente riuscì a chiedere: “Andiamo dove, mia signora?”
La fata, perché era una fata, la guardò dall’alto in basso con aria interrogativa. “Non hai visto il cervo bianco? Ti ha scelta. Su, non abbiamo tempo da perdere!”
Quindi si avviò con passo leggero tra gli alberi, reggendosi con una mano la lunga veste fluttuante.
 Bianca era incantata dalla grazia e la rapidità con cui si muoveva, ma fece del suo meglio per restarle dietro, nonostante i pesanti zoccoli che portava ai piedi. Quelli zoccoli le rendevano difficile camminare e facevano tanto rumore che a un certo punto la fata si voltò, li guardò perplessa e con un gesto della mano fece comparire al loro posto un paio di calzature di pelle morbidissima. Bianca non aveva mai avuto calzature così belle, ma non ebbe tempo di ammirarle perché la fata aveva ripreso ad avanzare veloce.
Dopo un lungo percorso tra i boschi, la fata sembrò ricordarsi improvvisamente qualcosa e si voltò verso Bianca: “Vorrai riposare un po’, prima di proseguire.”
Bianca annuì. La fata era gentile con lei, ma emanava una tale autorità che la intimidiva.
La fata le indicò un ceppo su cui poteva sedere, e di nuovo con un gesto della mano fece comparire un ricco pasto in un piatto d’oro e acqua fresca in una coppa di cristallo, perché Bianca potesse rifocillarsi.
Mentre Bianca mangiava, la fata la osservava con il capo inclinato, come incuriosita.
Quando la ragazza ebbe finito, fece sparire la coppa e il piatto e la guardò un attimo, soppesandola. “Non puoi proprio presentarti vestita così,” disse infine la fata e di colpo Bianca vide le sue povere vesti da sguattera trasformarsi in un abito lungo e fluente, di un rosso acceso. In seguito comparve un giustacuore nero e infine si ritrovò con una faretra sulla spalla e un arco d’argento in mano. “Così va meglio,” disse la fata riprendendo il cammino.
Intanto che la seguiva, Bianca  osservava sbalordita il suo nuovo abito e il suo equipaggiamento. L’arco era di un argento riccamente lavorato e le frecce della faretra erano bellissime, dritte e luccicanti.
Alla fine giunsero a una costruzione di pietra che sembrava antichissima, con archi alti fino al cielo.
La fata la guidò fino a un salone riccamente addobbato di tralci di vite e fiori che scendevano in cascate dal soffitto.
In mezzo alla sala, il grande cervo bianco.
“Finalmente siete arrivate!” disse, rivolto alla fata.
“La ragazza è umana,” fu la risposta della fata.
Il cervo bianco abbassò il muso in segno di assenso.
Poi si rivolse a Bianca: “Ho visto il tuo cuore, che è puro e generoso. Ti offro di far parte della mia guardia. Il tuo compito, con gli altri, è di pattugliare i boschi e impedire agli umani di arrivare fino a qui. In cambio, la tua famiglia riceverà ricchezze adeguate e tu potrai andarli a trovare due volte l’anno, al solstizio d’inverno e a quello d’estate. Accetti?”
Bianca sollevò appena l’arco e stava per rispondere, ma il cervo la interruppe: “Sì, lo so che non hai esperienza. Riceverai un addestramento adeguato, non temere.”
Bianca ripensò alla cuoca del castello e fece un ampio sorriso. “Accetto con tutto il cuore.”
Iniziò così la sua vita felice nel folto dei boschi, al servizio del cervo bianco. Della sua guardia facevano parte soprattutto elfi e fate, ma Bianca imparò in fretta a tenere il passo con loro, a muoversi per il bosco silenziosa come una piuma, a tirare con l’arco e a sorvegliare i confini. Le piaceva immensamente passare le giornate nei boschi e nel palazzo di pietra aveva a disposizione un ampio appartamento tutto per sé, con una grande letto di quercia pieno di volute intagliate e una grande camino in cui ardeva sempre un fuoco magico.
Era felice, anche se non sapeva che cosa le avrebbe riservato il futuro, né perché il cervo bianco avesse scelto proprio lei.
Poi, un giorno in cui era di pattuglia, vide una figura pesante annaspare vicino ai confini con un cesto pieno di fragoline e di altri frutti di bosco. Scese con un balzo dall’albero su cui era appostata intimando l’altolà e si trovò davanti la cuoca del castello, che per lo spavento aveva rovesciato tutto il cesto di frutti e la guardava con la bocca spalancata per lo stupore.
“Bianca!” esclamò la donna. “Sì, ma non temere.” Disse Bianca chinandosi a raccogliere rapidamente i frutti e rimettendoli nel cesto.
Infine porse il cesto alla cuoca e la prese per un braccio. “Vieni, ti mostro la via più breve per tornare al castello.” L’accompagnò per un tratto e poi tornò tranquilla all suo posto di vedetta. Ma all’improvviso si trovò davanti il cervo bianco. Bianca chinò la testa in segno di saluto.
“Per questo ti ho scelta,” disse il cervo. “Perché  il tuo cuore non conosce il veleno del rancore o del desiderio di vendetta. Tu non sai quanto sia raro.”
Bianca chinò nuovamente il capo con umiltà e quando lo risollevò il cervo bianco era sparito. E lei proseguì con la sua vita felice.
 
  
Buonanotte a tutti e sogni felici.