mercoledì 27 dicembre 2017

I vincitori di questa Disfida!



Eccoci qua, a conteggi fatti.

Due fiabe si sono aggiudicate un uguale numero di voti e risultano quindi vincitrici a pari merito:

- Il cappello di Orlando, scritta da Federica Rossi di Inchiostro Rosa 

- Gasp e i libri, scritta da me

Queste sono le fiabe più apprezzate di questa Disfida un po' sottotono.
Se da un punto di vista "poetico" era una buona idea tenerla nel periodo che precede il Natale, da un punto di vista pratico capisco benissimo che tutti sono stati un po' indaffarati per i preparativi della festa.

Per quanto mi riguarda, il bilancio è positivo. 
Ho scritto una ventina di fiabe in 24 giorni, con qualche "caduta" qua e là.
Questo mi ha permesso di chiarirmi alcuni meccanismi che si attivano quando si produce a ritmi serrati e imparare ancora qualcosa sulla creatività in generale. 

Quello che ho imparato, presto probabilmente sarà in un libro, ma per ora non posso dire di più.

Grazie a tutti per esserci stati e per avere giocato con la Disfida. 
Il mio regalo di Natale più importante, per quest'anno, siete stati voi!

Auguri di cuore per il proseguimento delle Feste e soprattutto per un magico, strepitoso e felice 2018!



domenica 24 dicembre 2017

il sogno impossibile



Ultima fiaba di questa Disfida


Il sogno impossibile


Il giovane Principe non voleva sposarsi. Non con le fanciulle che il Re e la Regina gli proponevano. Lui sapeva che non facevano per lui.
L’aveva sognata, la sposa che voleva, con i lunghi boccoli e gli immensi occhi color del cielo.
L’aveva vista assorta, immersa nella lettura. L’aveva vista ridere come una sorgente in un giardino.
Non aveva che i suoi sogni, per confidare nella sua esistenza, ma per lui erano abbastanza.
Purtroppo, non era lo stesso per il Re e la Regina.
“Tu vivi di sogni,” gli dicevano “ma intanto il regno ha bisogno di un nuovo re e di eredi!”
Alla fine, non vedendo altro modo per seguire il suo cuore, il Principe partì da solo nella notte, senza portare nulla con sé se non gli abiti che indossava.
Vagò a lungo per regni diversi, vivendo di quel che trovava o che riusciva a guadagnarsi con piccoli lavori umili qua e là.
Quella vita era difficile, per un giovane abituato come lui a ogni agio, ma quando sognava la fanciulla si sentiva in pace, perché sapeva che il suo cuore non mentiva.


Dall’altra parte del mondo viveva, in effetti, una fanciulla dai lunghi boccoli e dagli immensi occhi color cielo. Una fanciulla che rifiutava tutti i pretendenti che i suoi genitori le proponevano. Il suo cuore bramava un giovane che aveva visto solo nei suoi sogni, un giovane alto, elegante e gentile.
Invano i genitori le avevano presentato tutti i giovani di bell’aspetto della società civile, l’avevano condotta a teatro e alle feste, sperando di farle incontrare finalmente il suo amato.
Alla fine, non sapendo più che fare, avevano deciso di mandarla dallo zio, che abitava in un regno lontano. Non sapevano più nemmeno loro se speravano in un incontro fortunato, o se confidavano nel carattere deciso di quello zio per indurre la giovane alla ragione.
La fanciulla accettò di partire, certa che il suo cuore non mentisse.


Lo zio dapprincipio fu gentile e accompagnò la giovane a ogni festa e ogni ballo del regno, presentandole tutti i giovani degli di lei per educazione e per rango. Ma con il passare dei mesi, quando fu chiaro che nemmeno in quel regno aveva trovato lo sposo che desiderava, ottenuto il permesso dei genitori passò a maniere meno cerimoniose.
In sostanza, confinò la fanciulla in casa, dicendole che sarebbe uscita da lì solo quando avesse acconsentito a sposare almeno uno degli innumerevoli giovani che le erano stati presentati.


Il giovane Principe, intanto, aveva perso ogni segno del suo lignaggio. I suoi eleganti abiti si erano consumati da tempo e li aveva dovuti sostituire con abiti più semplici. Lavorando, le sue mani si erano fatte forti e callose, non certo le mani delicate da gentiluomo che aveva un tempo.
Eppure non si rassegnava a tornare al suo regno.
Ogni volta che stava per tornare indietro, udiva per caso qualche voce parlare di una fanciulla bellissima che lo spingeva ad andare a visitare un altro regno e un altro ancora.


Ormai da molto tempo la ragazza dagli occhi di cielo viveva chiusa nella casa dello zio. In quel regno, ormai, nessuno parlava più della leggendaria bellezza della fanciulla venuta da lontano, poiché tutti pensavano che fosse gravemente ammalata.
Occupava le giornate immersa nella lettura nella ben fornita biblioteca dello zio e al tramonto, ogni sera, usciva sulla terrazza ad ammirare il tramonto. Iniziava a nutrire seri dubbi di poter continuare così ancora a lungo. Ma ormai i giovani che l’avrebbero presa in sposa in passato si tenevano alla larga e si erano dimenticati di lei.

(fine prima parte)


(seconda parte)

Passando di regno in regno, il Principe era ormai vicinissimo a quello dello zio della fanciulla. Ormai, però, non era più tanto giovane e immaginò che anche lei avesse risentito del passare degli anni. Anche se l’avesse trovata, sarebbero stati in grado di riconoscersi? Anche lei lo stava cercando? Forse lei ormai si era sposata.  Avrebbe fatto meglio a tornare indietro?
Stava cercando di trovare la soluzione ai suoi dubbi sul fondo di un boccale di vino nella taverna, quando udì un vecchio giardiniere parlare del “più bel fiore che si fosse mai visto in un giardino”.
Fattosi attento, lo udì raccontare di quella bellissima fanciulla che era solita passeggiare nel giardino dello zio, con i lunghi boccoli e gli occhi color del cielo. Il giardiniere raccontava di essere rimasto così affascinato dal colore di quegli occhi, da aver piantato invano aiuole e aiuole di fiori celesti, cercando di ritrovarne il colore speciale.
Posato il boccale, il Principe si accinse a rimettersi in viaggio.

La fanciulla, ormai, era invasa dalla malinconia. Gli anni erano passati, la sua bellezza stava sfiorendo e lei si dava della sciocca, per aver sprecato così inutilmente la sua vita. Solo per inseguire un sogno! Diventò così triste che si ammalò davvero, trascorrendo ormai le giornate a piangere, distesa sul letto.
Lo zio, seriamente preoccupato per il suo stato, fece chiamare i genitori.

Quando il Principe giunse nel regno, non ebbe difficoltà a trovare il giardino pieno di fiori del colore del cielo, ma quando chiese della fanciulla nessuno seppe dirgli niente. Solo qualcuno ricordava vagamente una giovane molto bella che era venuta in visita da suo zio, ma la poveretta si era ammalata, gli dissero, e nessuno l’aveva più vista.
Eppure il suo cuore gli scalpitava nel petto, facendogli capire che era giunto alla fine del suo viaggio.
Interrogando ancora tutti quelli che incontrava, seppe alla fine che la giovane era ancora in quella casa, costretta a letto da una misteriosa malattia.
L’unico suo pensiero, a quel punto, fu come fare a raggiungerla.

Anche il cuore della ragazza aveva preso a farle le capriole nel petto, e lei si stava lentamente riprendendo dalla malinconia.
Un’assurda speranza le ridava le forze, le riportava un po’ di colore sulle guance.
Ben presto fu nuovamente in grado di rimanere seduta,  e una sera finalmente decise di alzarsi a vedere il tramonto, come era solita fare in passato.
Fu allora che vide la strana macchina voltante avvicinarsi alla terrazza in cui si trovava.
Una macchina sostenuta da un grande pallone colorato si dirigeva veloce proprio verso di lei.
Spaventata all’inizio, si tranquillizzò quando scorse da lontano la sagoma di un uomo. Il cuore le diede un balzo.
Possibile che fosse proprio lui? Colui che aveva aspettato invano per tutto quel tempo?

Anche il Principe l’aveva scorta e dirigeva accuratamente la sua macchina verso la terrazza. Alla fine, l’aver fatto tanti mestieri diversi gli era servito a inventare quella strana cosa che lo faceva volare, come lo faceva volare la speranza di incontrare finalmente colei a cui sapeva di essere destinato da sempre.
Quando furono abbastanza vicini da vedersi bene, ognuno dei due seppe di essere finalmente arrivato a casa.
Non ebbero bisogno di parlare, e comunque erano tutti e due troppo emozionati per riuscire a proferire parola.
Incantato, lui le porse semplicemente una mano per aiutarla a salire a bordo.
Estasiata, lei prese quella mano, decisa a seguirlo ovunque senza voltarsi indietro.

Così, scomparvero verso il tramonto a bordo di quello strano velivolo.
Finalmente insieme.
Il sogno impossibile si era avverato.



sabato 23 dicembre 2017

Il sogno impossibile (prima parte)



Il sogno impossibile


Il giovane Principe non voleva sposarsi. Non con le fanciulle che il Re e la Regina gli proponevano. Lui sapeva che non facevano per lui.
L’aveva sognata, la sposa che voleva, con i lunghi boccoli e gli immensi occhi color del cielo.
L’aveva vista assorta, immersa nella lettura. L’aveva vista ridere come una sorgente in un giardino.
Non aveva che i suoi sogni, per confidare nella sua esistenza, ma per lui erano abbastanza.
Purtroppo, non era lo stesso per il Re e la Regina.
“Tu vivi di sogni,” gli dicevano “ma intanto il regno ha bisogno di un nuovo re e di eredi!”
Alla fine, non vedendo altro modo di seguire il suo cuore, il Principe partì da solo nella notte, senza portare nulla con sé se non gli abiti che indossava.
Vagò a lungo per regni diversi, vivendo di quel che trovava o che riusciva a guadagnarsi con piccoli lavori umili qua e là.
Quella vita era difficile, per un giovane abituato come lui a ogni agio, ma quando sognava la fanciulla si sentiva in pace, perché sapeva che il suo cuore non mentiva.


Dall’altra parte del mondo viveva, in effetti una fanciulla dai lunghi boccoli e dagli immensi occhi color cielo. Una fanciulla che rifiutava tutti i pretendenti che i suoi genitori le proponevano. Il suo cuore bramava un giovane che aveva visto solo nei suoi sogni, un giovane alto, elegante e gentile.
Invano i genitori le avevano presentato tutti i giovani di bell’aspetto della società civile, l’avevano condotta a teatro e alle feste, sperando di farle incontrare finalmente il suo amato.
Alla fine, non sapendo più che fare, avevano deciso di mandarla dallo zio, che abitava in un regno lontano. Non sapevano più nemmeno loro se speravano in un incontro fortunato, o se confidavano nel carattere deciso di quello zio per indurre la giovane alla ragione.
La fanciulla accettò di partire, certa che il suo cuore non mentisse.


Lo zio dapprincipio fu gentile e accompagnò la giovane a ogni festa e ogni ballo del regno, presentandole tutti i giovani degli di lei per educazione e per rango. Ma con il passare dei mesi, quando fu chiaro che nemmeno in quel regno aveva trovato lo sposo che desiderava, ottenuto il permesso dei genitori passò a maniere meno cerimoniose.
In sostanza, confinò la fanciulla in casa, dicendole che sarebbe uscita da lì solo quando avesse acconsentito a sposare almeno uno degli innumerevoli giovani che le erano stati presentati.


Il giovane Principe, intanto, aveva perso ogni segno del suo lignaggio. I suoi eleganti abiti si erano consumati da tempo e li aveva dovuti sostituire con abiti più semplici. Lavorando, le sue mani si erano fatte forti e callose, non certo le mani delicate da gentiluomo che aveva un tempo.
Eppure non si rassegnava a tornare al suo regno.
Ogni volta che stava per tornare indietro, udiva per caso qualche voce parlare di una fanciulla bellissima che lo spingeva ad andare a visitare un altro regno e un altro ancora.


Ormai da molto tempo la fanciulla viveva chiusa nella casa dello zio. In quel regno, ormai, nessuno parlava più della leggendaria bellezza della fanciulla venuta da lontano, poiché tutti pensavano che fosse gravemente ammalata.
Occupava le giornate immersa nella lettura nella ben fornita biblioteca dello zio e al tramonto, ogni sera, usciva sulla terrazza ad ammirare il tramonto. Iniziava a nutrire seri dubbi di poter continuare così ancora a lungo. Ma ormai i giovani che l’avrebbero presa in sposa in passato si tenevano alla larga e si erano dimenticati di lei.

(fine prima parte)


venerdì 22 dicembre 2017

Oscar Cuoreduro


Oscar Cuoreduro

Il Mendicante camminava per le strade affollate della città, invisibile ai più.
Solo i bambini lo guardavano pieni di curiosità, intuendo che quel vecchio dalla barba bianca non era un uomo come gli altri.
Avevano ragione, naturalmente. L’uomo era un potente mago, che aveva scelto il travestimento più adatto per non essere visto da colui che doveva tenere d’occhio.
E di tutte le persone che non prestavano la minima attenzione ai mendicanti, Orcar Cuoreduro era di certo il campione.
Non era una cattiva persona, almeno non come si intende di solito. Anzi, al lavoro era molto apprezzato per la sua capacità di essere professionale e gelido, senza mai prenderla “sul personale”.
Per Oscar, niente era abbastanza personale da meritare la sua attenzione. Non faceva effettivamente del male a nessuno, ma la sua indifferenza a volte era ugualmente dannosa.
Per lui non solo i mendicanti erano invisibili, ma anche i bambini, gli animali, specialmente se piccoli e in difficoltà, le donne per cui non aveva interesse, che lui definiva “donnette”. Anche con gli uomini, non andava molto meglio. Prestava attenzione solo a quelli più potenti di lui e che potevano in qualche modo aiutarlo a fare carriera. Gli altri, tutti gli altri, erano solo “gente” senza volto e senza nome, esseri inutili che gli intralciavano la strada.
Non era mai, mai accaduto che Oscar Cuoreduro avesse un semplice gesto di gentilezza per un suo simile. Non aveva mai ceduto il posto a sedere a qualcuno sui mezzi pubblici, non aveva mai soccorso una persona colta da malore proprio davanti a lui, non aveva mai tenuto una porta aperta per permettere a qualcuno di passare. Non si era mai preso cura di niente e di nessuno. Se un cucciolo abbandonato guaiva per la tristezza o il dolore proprio ai suoi piedi, lo scavalcava indifferente e proseguiva per la sua strada.
Era inevitabile che prima o poi un simile campione di indifferenza attirasse l’attenzione del mondo magico, e il Mendicante lo stava seguendo proprio per quel motivo.
Era giunto il momento della resa dei conti.
La strada in cui abitava Cuoreduro era graziosa, ma non molto frequentata a quell’ora di sera.
Il Mendicante lo aveva preceduto e lo attendeva seduto su una panchina, al freddo. Al passaggio di Oscar, tese la mano, ma lui come sempre lo scansò come se non lo avesse nemmeno visto e fece per allontanarsi.
Solo che le gambe smisero di obbedirgli e si trovò immobile accanto alla panchina. Istintivamente, si voltò allora verso il Mendicante per chiedere aiuto, ma nemmeno la voce rispondeva più ai suoi comandi. Oscar abbassò lo sguardo, e si accorse di essere diventato un lampione, in tutto e per tutto simile agli altri che illuminavano la via.
Solo allora, il Mendicante gli parlò: “Ora prenderai un po’ della tua stessa medicina, caro mio.”
Oscar cercava disperatamente di chiedergli aiuto con lo sguardo, ma il mago se ne andò senza voltarsi indietro.
Da quel giorno, Oscar ebbe l’occasione di capire che cosa si prova, quando tutti ti trattano con indifferenza. Gli unici che gli prestavano un po’ di attenzione, ormai, erano i cani che lo annusavano brevemente prima di alzare la zampetta. A volte qualcuno si appoggiava a lui per riprendere fiato, ma poi se ne andava senza nemmeno degnarlo di uno sguardo. Di notte, Oscar illuminava la strada per i passanti, ma nessuno lo ringraziava o si preoccupava per lui.
Stagione dopo stagione, Oscar imparò a prestare attenzione agli altri, per non morire di solitudine e di noia. Costretto finalmente a osservare i suoi simili, prese ad affezionarsi a quelli che vedeva più spesso. Persino i cani, adesso, gli erano simpatici e i gatti che a volte si strofinavano contro di lui gli facevano quasi piacere, con le loro pellicce morbide. Imparò a sopportare pazientemente i piccioni appollaiati sulla sua testa e ad assistere alle lunghe notti inquiete dei mendicanti che a volte trascorrevano la notte sulla panchina accanto a lui, cercando di difendersi come potevano dal freddo e dall’umidità della notte.  Imparò a conoscere le persone che frequentavano quella via, sentendosi sempre più partecipe delle loro gioie e dei loro dolori.
Una notte, quando iniziò a piovere sull’ennesimo mendicante che cercava di dormire sulla panchina, preso da compassione afferrò un ombrello dimenticato da chissà chi, e lo aprì per proteggere il poveretto dalla pioggia. Quando il Mendicante lo guardò e lo ringraziò, Oscar finalmente lo riconobbe. In quell’istante tornò a essere un uomo, o forse iniziò allora per la prima volta a essere un uomo, chissà.
Quello che è certo, è che da allora Oscar fu una persona davvero per bene.   



giovedì 21 dicembre 2017

Gugliabianca





Gugliabianca


Il villaggio di Gugliabianca era stato un luogo pacifico e felice, prima dell’arrivo delle Ombre.
Ma poi, non più.
Nessuno sapeva da dove venivano e in molti non riuscivano nemmeno a vederle, tanto si muovevano silenziose evitando accuratamente ogni zona di luce.
Strisciavano negli angoli bui, nelle pieghe nascoste delle anime dove nessuno arriva a guardare. Si acquattavano nei boschi d’inverno, quando la luce del giorno era breve, e lunghe le notti.
Le Ombre avevano iniziato a manifestarsi in piccole cose. Persone che erano sempre andate d’accordo iniziavano a litigare. Chi aveva sempre lasciato l’uscio di casa aperto, adesso lo sprangava, pieno di diffidenza. L’avidità e la paura avevano preso il posto della gentilezza e della fiducia.
Gli abitanti del villaggio non riuscivano a rendersi conto di quello che stava succedendo e si incolpavano gli uni con gli altri di quel cambiamento, ma la Foresta, che tutto vedeva, aveva capito e cercava a suo modo di lanciare l’allarme.
Quando un uomo colpito dalle Ombre toccava un fungo, un frutto o un albero, questi avvizzivano immediatamente, tornando in salute solo quando gli uomini corrotti si erano allontanati. All’inizio, le donne e i bambini riuscivano ancora a raccogliere qualcosa, ma all’avvicinarsi del solstizio, con le giornate sempre più brevi, l’intero villaggio era stato colpito dalla maledizione delle Ombre e ovunque c’erano oscurità, disperazione e fame.
Fu per una felice combinazione che il giovane gnomo Hans passò proprio in quel periodo per la Foresta.
Era in viaggio per raggiungere certi suoi parenti alla lontana, con i quali avrebbe trascorso l’intero inverno a scopo di istruzione. Quei parenti infatti erano abili nella Cura delle Foreste e Hans voleva imparare da loro, per poi tornare a casa e curare quello strano male stava colpendo le foreste della sua gente.
Dunque quel giorno attraversava la Foresta e si stupiva di trovare anche lì i segni a cui era abituato: alberi che sembravano avvizziti, funghi rinsecchiti, animali silenziosi e diffidenti, ben nascosti nelle loro tane.  Mentre si guardava attentamente intorno, Hans scorse appena l’accenno di un’Ombra che non era stata abbastanza veloce da evitare il bagliore del campanello d’argento che ornava il cappellino a cono dello gnomo.  
Una volta individuata l’Ombra, Hans decise di seguirla. Nascose il campanello per evitare ogni rumore e si mise alle calcagna dell’Ombra che, credendosi non vista, scivolava verso il villaggio.
Qui tutte le porte erano sprangate e nessuno voleva dare accoglienza al forestiero dal buffo cappello, ma origliando un po’ qui e un po’ là Hans riuscì a farsi un’idea abbastanza precisa di quello che stava succedendo.
Per fortuna, un po’ di istruzione in materia di Ombre l‘aveva anche lui.
Sapeva esattamente che cosa fare e quella era proprio la notte giusta, poiché sarebbe stata la notte più lunga dell’anno.

Fischiettando andò a cercare un bell’albero, che portò proprio al centro del villaggio.
Già gli abitanti del villaggio socchiudevano gli usci, incuriositi dal fatto che quell’albero non era avvizzito.
Poi Hans iniziò a decorare l’albero con mele succulente, noci colorate d’oro, funghi carnosi, candele accese e ogni sorta di oggetti luccicanti e brillanti.
Un po’ per curiosità, un po’ per fame, tutto il villaggio si fece intorno all’albero, mentre le Ombre infastidite da tutto quel luccicare si tenevano in disparte.
Quando tutti si furono riuniti, Hans iniziò dolcemente a cantare una canzone magica degli Avi. Aveva una voce limpida e ben presto alcuni iniziarono timidamente a seguire il ritmo con i piedi e poi a cantare sottovoce.
Ora, se c’è una cosa che le Ombre odiano quasi quanto la luce, quella è il canto.
Appena vedeva che una persona era stata liberata dalle Ombre, Hans continuando a cantare lanciava lesto qualcosa da mangiare. Le persone mangiavano e poi riprendevano a cantare con più convinzione. L’alba li trovò così, intenti a cantare  intorno all’albero luminoso. La notte più lunga dell’anno era trascorsa e l’incantesimo delle Ombre era spezzato.
Da quel giorno, la luce avrebbe preso a crescere sempre di più.
Ringraziato e colmato di doni da tutto il villaggio, Hans si rimise in cammino per tornare a casa. Aveva imparato ciò di cui aveva bisogno e ora doveva riportare la luce anche nella sua foresta. 

martedì 19 dicembre 2017

La tata perfetta



Fiaba per oggi


La tata perfetta

Alice guardava dalla finestra l’oscurità che scendeva tra le case.
Non era tardi, ma d’inverno la luce scompariva presto. I bambini si stavano azzuffando in salotto. Ancora.
La quarta tata della sua vita l’aveva lasciata in un mare di guai per l’indomani, lunedì.
Maria, la sua bimba più piccola, aveva ancora qualche linea di febbre e non avrebbe potuto andare all’asilo, ma lei non poteva con la stessa facilità evitare di andare al lavoro.
Con l’epidemia di influenza che aveva colpito Maria e poi la tata, era solo questione di tempo prima che si ammalassero anche gli altri due.
Sbirciò in salotto, adesso anche i due figli più grandi, Giulio e Sofia, si erano messi tranquilli a guardare un cartone animato. Avevano finito i compiti?
Alice si ripromise di controllare più tardi.
Doveva assolutamente trovare una soluzione per l’indomani.
Sobbalzò, quando suonò il campanello. Non aspettava nessuno.
La ragazza alla porta le sorrise cordialmente e si accomodò all’interno senza essere invitata.
- Allora, direi che ci conviene iniziare subito a prendere confidenza. Dov’è la piccola ammalata? Io sono Mary - disse guardandosi intorno.
Alice cercò di fermala: – No, guardi, io non ho chiamato nessuno…
- Ma certo! - La ragazza si fermò e la guardò attentamente. – Non è lei la mamma di Maria, la piccola con l’influenza?
- Sì, ma…
Non serviva ribattere. La ragazza si era già messa accanto a Maria, e le toccava la fronte con aria esperta.
- Sì, ancora qualche lineetta di febbre, ma starà bene in due o tre giorni al massimo – decretò Mary con una sicurezza confortante passando in salotto.
- E voi siete Giulio e Sofia, dico bene?
I bambini annuirono diffidenti.
Mary sembrò non notarlo e spense il televisore. Incredibilmente non ci fu il solito coro di proteste.
Mentre Alice si convinceva che la tata ammalata doveva aver mandato una sostituta, iniziò a preparare un tè. Poteva funzionare. Se era una persona fidata.
Quando arrivò in salotto con la teiera, i bambini erano seduti al tavolo a fare i compiti e tutti i giocattoli che solo dieci minuti prima ingombravano la stanza erano ben riposti.
Nei mesi seguenti, Alice dovette stupirsi molte altre volte dell’efficienza di Mary. Non solo non si ammalava mai ed era sempre puntuale, ma i bambini l’adoravano e tutto filava liscio e senza intoppi.
Quando Alice lavorava, era tranquilla, sapendo che i suoi bambini erano in ottime mani. Quando era a casa, trovava che Mary aveva sistemato infinite piccole cose in sua assenza, così anche la vita domestica scorreva più  serena.
Mary sembrava sapere sempre alla perfezione di che cosa c’era bisogno e intuire le necessità di ognuno senza nemmeno il bisogno di parlarne.
Esattamente un anno dopo, Alice guardava l’oscurità scendere sulla città e si stupiva di quanto la sua vita e quella dei suoi bambini fosse cambiata in così poco tempo. Adesso annuiva comprensiva e si sentiva un po’ in colpa, quando le colleghe al lavoro si lamentavano della difficoltà con le tate e i bambini. Appoggiando la fronte al vetro appannato, si scoprì a pensare “Tutti dovrebbero avere una Mary!”
Forse fu solo un’impressione, ma le sembrò che una stella brillasse per un attimo più intensa nel crepuscolo, come a farle l’occhiolino.

Poi vide delle figure confuse che sembravano scendere dal cielo. L’impressione era che planassero sorrette da ombrelli aperti, ma erano molto lontane e si stava alzando una densa nebbia. Dopo poco, non si vedeva più nulla. 

Calendimaggio



Buongiorno!
Ho perso un po' il filo, mentre le commissioni per Natale si accavallano, ma questa era la fiaba di ieri.

Calendimaggio

Era un tempo, quello, in cui le persone avevano dimenticato da un pezzo le vecchie tradizioni, isolandosi sempre di più nelle proprie case. Così, quando un gruppo di coraggiosi decise di riprendere a celebrare la festa di Calendimaggio, le fate del bosco rizzarono immediatamente le orecchie.

Era proprio ora di fare qualcosa di diverso.

Il grande ontano del paese fu ornato di nastri colorati e altri furono lasciati pendere dai rami, in modo che le giovani coppie potessero, danzando, intrecciarli.
Furono preparati i giochi tradizionali e  bicchieri, piatti e cesti di fiori furono disposti su grandi tavole all’ombra del maggiociondolo, i cui fiori gialli erano già una promessa.

Mentre la primavera esplodeva con i suoi fiori profumati, le fate si preparavano a fare la loro parte, come da tradizione.
Per Isabella, la più giovane del gruppo, quella era la prima occasione di vedere da vicino gli umani.
Travestita come le altre da fanciulla e con un cestino pieno di fiori di stagione al braccio, iniziò a bussare alle porte delle case, cantando insieme alle altre fate antiche canzoni beneauguranti e ricevendo in cambio dolcetti, vino, qualche torta salata o pietanza da portare al banchetto in piazza, a cui erano tutti invitati.
Isabella, in particolare, era così bella, rosea e gentile che nessuno le diceva di no e tutti accettarono volentieri di partecipare alla festa.

Nel pomeriggio, tutte le case erano ornate di fiori e le grandi tavole sotto il maggiociondolo si erano riempite di succulente vivande.
C’era tutto il paese, in piazza. I ricchi e i poveri, i giovani e i vecchi. C’erano musica, buone bevande, buon cibo e l’aria dolce della primavera.
Le fate aprirono le danze intorno all’ontano con un aggraziato girotondo e poi, quando la festa raggiunse il culmine, si allontanarono silenziose.

Liberate finalmente le ali, tornarono in volo nella case vuote, lasciando in ognuna doni invisibili. Isabella non era abituata alle sofferenze degli uomini e chiedeva continuamente il permesso di fare di più, di lasciare altri doni.
“Non possiamo,” la redarguiva dolcemente la decana delle fate. “Non ci è concesso esaudire tutti i loro desideri. Possiamo dar loro ciò di  cui hanno bisogno, nulla di più e nulla di meno. I cuori degli uomini desiderano tante cose e, come ti accorgerai, appena ne hanno una ne vogliono subito un’altra.”
Le fate si muovevano veloci lasciando qui, dove viveva una persona troppo triste, un po’ di allegria,  
là, dove c’erano pene d’amore, un po’ di comprensione. In alcune abitazioni lasciarono solo un po’ di buonsenso, in altre che ne avevano proprio bisogno qualche magia per la prosperità o la salute.
Dopo aver benedetto ogni casa del paese, nascoste nuovamente le ali, le fate tornarono alla festa e danzarono insieme ai paesani fino alle prime luci dell’alba.
Tornando nel bosco, erano tutte un po’ stanche, ma alla decana, che era sempre attenta, non poteva sfuggire nulla.
“Che cosa hai combinato, Isabella?” chiese infine vedendo che la giovane fata continuava a sorridere tra sé come se custodisse un segreto.
“Non ho combinato proprio nulla,” si difese Isabella con il più soave dei sorrisi. “Solo, ho deciso di lasciare qualche briciola di un dono tutto mio.”
 “Ovvero?”
“Il sospetto che noi esistiamo davvero” ammise candidamente Isabella.

La decana voltò il viso, per non fa vedere che stava sorridendo anche lei. Quella giovane fata le avrebbe dato del filo da torcere, questo era sicuro. 

sabato 16 dicembre 2017

La stanza buia



Bellissima fiaba di Federica Rossi di Inchiostro Rosa


La stanza buia

Dopo l'incidente Felicia aveva perso tutta la sua voglia di vivere.
Non era rimasto nulla di quella ragazzina che sprizzava gioia ed energia, che stregava tutti con il suo fascino discreto e la sua pronta generosità. Adesso i suoi occhi erano fissi sul muro bianco, le braccia distese lungo il corpo e le sue gambe immobili sotto le lenzuola.
Il medico le aveva dato speranze di miglioramento ma Felicia non riusciva a trovare la forza ed invece che lottare si era chiusa in se stessa. Mamma le teneva compagna ogni sera e le raccontava storie di principesse coraggiose che sfidavano le loro paure, storie di disavventure che prendevano all'improvviso la giusta direzione, ma nulla serviva a stimolare la piccola Felicia.
Un giorno la giovane ebbe una crisi fortissima, piangeva e urlava e chiese che tutta la sua stanza fosse dipinta di nero. Nero come il suo umore.
Felicia fu spostata allora in salotto e dopo qualche giorno di lavoro rientrò nella sua camera completamente dipinta di scuro.
- E quella stella? - chiese la ragazza al padre, guardando un punto luminoso sul soffitto.
- Quella stella luminosa sei tu, amore mio. Adesso vedi tutto buio nella tua vita ma sono sicuro che in te quella stella esiste ancora ed ogni volta che farai un passo verso la tua rinascita dipingeremo una nuova stella in questo cielo nero. -
Felicia rimase molto colpita da queste parole ma non rispose nulla e si fece rimettere a letto.
Quella notte, nel buio della sua stanza Felicia mirò a lungo quella stella e ripensò a tutti i suoi progetti. Ripensò alle sue lunghe passeggiate con le amiche e le corse in bicicletta e poi le tornò alla mente l'incidente...quella macchina rossa che aveva mancato lo stop. Il colpo forte e poi il risveglio in ospedale. Una calda lacrima le scese sulla gota. Ma poi ricordò le parole del medico...' È solo una questione di volontà, Felicia, tu puoi tornare a camminare ma devi volerlo fortemente e devi lavorare per riconquistare la tua indipendenza '.
Sorrise e per la prima volta dormì serena.
Il giorno seguente chiamò a squarciagola il papà che arrivò di corsa per la preoccupazione.
- Papà caro, aiutami, devo cominciare a fare i miei esercizi! - gli disse con energia.
L'uomo trattenne il pianto e la strinse forte al petto poi si prese cura di lei.
Quella sera dipinsero una nuova stella.

E stella dopo stella, la vita tornò a splendere per Felicia e per la sua famiglia...

La regina di ghiaccio

La regina del ghiaccio


Vashti aveva sempre amato le superfici lisce del ghiaccio. Erano la sua casa. il suo conforto. Dove altri percepivano il gelo, lei percepiva una sorta di calore, un senso di ordine.
Il ghiaccio era prevedibile, lucente, impenetrabile.
Da molti anni ormai era la regina di quel regno gelato e si trovava perfettamente a suo agio.
C’erano poche cose da fare, in poche stagioni dell’anno.
Durante la brevissima estate, si ammassavano le provviste sufficienti per il resto dell’anno e si riparavano le crepe prodotte nel ghiaccio dal calore.
Nel pieno dell’inverno, c’era la Grande Festa del freddo, con lunghi preparativi e sculture di neve.
Per i mesi rimanenti, il suo regno era tranquillo e immobile.
Vashti non immaginava che la corsa alla ricchezza dei “popoli bassi”, come venivano chiamati coloro che non vivevano sulle cime ghiacciate, avrebbe ben presto minacciato il suo regno.
I primi segnali di un cambiamento preoccupante furono semplicemente estati più lunghe. Poi nevicate sempre meno abbondanti.
Infine, quando i fiori iniziarono a spuntare sul pavimento del suo palazzo di ghiaccio, la regina capì che qualcosa stava cambiando, ma ancora si ostinava a pensare che quei cambiamenti non fossero destinati a durare.
Infine arrivò l’ermellino, riferendole che la sua pelliccia aveva smesso di mutare colore. Rimaneva sempre bruna, il colore della livrea estiva, e non diventava più bianca come la neve durante l’inverno.
A quel punto anche Vashti dovette ammettere che la neve non cadeva quasi più.
Il regno, che un tempo era stato così tranquillo, diventò un viavai affaccendato di animali che in passato si erano tenuti ben lontani da quelle terre. C’erano branchi di lupi, tassi, volpi, scoiattoli, conigli selvatici...
Sconvolta da quella confusione che segnava la fine del mondo che aveva sempre conosciuto, la regina si distese sul grandissimo letto di ghiaccio a baldacchino e decise di addormentarsi per sempre.     
Ma il baldacchino che si scioglieva per il calore le gocciolava sul viso e ben presto dovette rialzarsi a sedere, sempre più irritata.
Proprio in quel momento il pesantissimo baldacchino quasi sciolto le collassò addosso, colpendola pesantemente alla testa.
Nessuna sa per quanto tempo la regina rimase svenuta. Al suo risveglio, però, non ricordava più nulla.
Né il ghiaccio, né la neve.
Ammirava stupita i colori dei fiori e ne annusava estasiata il profumo. Mangiava di buon appetito i frutti dolcissimi che ora avevano preso a crescere anche in quelle terre. Accarezzava il manto dell’ermellino beandosi della sua morbidezza, senza ricordare più che era del colore sbagliato.
Così, la regina dei ghiacci divenne semplicemente la regina delle terre del nord, senza drammi o sofferenze.

Adesso, il mondo che conosceva era esattamente quello che aveva a disposizione. E lei era felice.

La principessa Fidesia


Ieri ho "fatto forca". Stavo pensando seriamente di lasciar perdere questa disfida. 
E poi ho trovato sulla pagina questa fiaba di Saverio Petrini...



 Saverio Petrini‎ a La Disfida delle Fiabe 2017

Ho scritto questa fiaba Natalizia ispirato da un'amica che è rimasta bloccata dal "colpo della strega" ...

La principessa Fidesia

La principessa Fidesia del Clan dei Rubrum, come tutte le principesse delle fiabe, era davvero bellissima, così bella che quando era nata una fatina per festeggiare le aveva intrecciato dei rubini nei capelli ed aveva ricamato la sua pelle con i colori delle foglie d’acero d’autunno; viveva nei suoi appartamenti reali al riparo delle mura fortificate della sua città, trascorreva le sue giornate dipingendo, camminando lungo i viali alberati della cerchia muraria, scrivendo fiabe e poesie, prendendosi cura dei bambini del Clan e di Milù, la sua fida canina da guardia, perché Milù amava farsi coccolare e vezzeggiare ma era in realtà lei a proteggere la sua Principessa, soprattutto leggendo i cuori dei Cavalieri che le si avvicinavano.

Fino ad allora infatti il cuore della Principessa era appartenuto a due Principi, il primo: il cavaliere Nero, aveva gli occhi verdissimi, ed era così bello che trascorreva i giorni ad ammirarsi allo specchio, sulle superfici d’acqua ed in tutto ciò che rifletteva la sua immagine; aveva trascorso così tanto tempo a guardare se stesso che un giorno quando Fidesia gli chiese di specchiarsi, almeno una volta, nei suoi occhi, lui non riuscì più a vederla, il Cavaliere Nero potè sentire solo la voce di lei, i suoi occhi si erano infatti così abituati a rimirare se stessi che non riuscivano più a vedere nient’altro; lui imprecò quel giorno, e per molti giorni ancora continuò ad incolpare Fidesia di essere sparita, di non volersi fare vedere da lui, fino a quando la Principessa se ne andò, intristita, mentre ancora una volta lui cercava di abbracciare l’immagine riflessa di se stesso.

Il secondo Cavaliere invece si chiamava Rublo, era un brav’uomo ma con una fissazione per tutto ciò che era quadrato e tondo, tutto secondo lui poteva avere solo una delle due forme, viveva in una bellissima casa quadrata, aveva una bellissima carrozza tonda, anche il suo letto era quadrato mentre la vasca in cui faceva il bagno era tonda, le sedie della sua casa erano tutte quadrate e tutto tra loro due scorreva abbastanza bene, proprio come l’acqua in un fiume quadrato, fino a quando però il Cavaliere decise che anche Fidesia doveva decidersi a diventare o una Principessa Quadrata o una Principessa Tonda. A questa richiesta Fidesia rimase alquanto stupefatta, mai aveva sentito infatti che le Principesse delle Fiabe fossero quadrate o tonde, ed inoltre come sarebbero dovuti diventare i suoi capelli quadrati o tondi anche loro? E i rubini nei capelli? Se fossero diventati quadrati o tondi non sarebbero stati più rubini!!! E le sfumature dei ricami sulla sua pelle? Se fossero diventati solo due figure geometriche non sarebbero più stati né ricami né sfumature!!!… Mentre la Principessa chiedeva un po' di tempo per trovare risposta a tutte queste domande il Cavaliere Rublo se ne andò al galoppo alla ricerca di una fanciulla quadrata e tonda, proprio come lui.

Entrambi i cavalieri l’avevano rimproverata di qualcosa, di essere scomparsa oppure di essere diversa da una figura rotonda o squadrata, in entrambi i casi il risultato era stato quasi lo stesso: era diventata invisibile proprio agli occhi dei suoi due Principi; per tutto questo lei stessa si era incolpata e, un po' per punirsi un po' per stanchezza smise di bere; le sue labbra avevano così sete che agli angoli della sua bocca si erano formate alcune piccole rughe, anche solo per sfiorarle però tutti i cavalieri del Regno avrebbero ancora dato ciò che di più prezioso possedevano: il proprio destriero, il proprio castello, la propria spada.

Il Natale si avvicinava e Fidesia continuava a dipingere, dipingeva soprattutto piste d’atterraggio e continuava a scrivere poesie e storie su un Principe Alato che sarebbe riuscito a riconoscere le luci del suo cuore e a posarvisi sopra, come fa la farfalla quando si posa sul suo fiore, con le ali che si fermano il tempo di due battiti, proprio il tempo in cui due cuori si guardano e si riconoscono.

Le giornate trascorrevano lente e la notte di Natale la fida Milù iniziò ad ululare alla Luna crescente, ululò così tanto che la Luna si voltò a guardare dentro la stanza dove Fidesia riposava, la luce bianca entrava nella stanza così silenziosamente che la Principessa continuava a dormire ed intanto le accarezzava la schiena indolenzita per il troppo stare ricurva sui fogli a scrivere e a dipingere.

La luce la illuminava completamente adesso, ed i suoi capelli diventavano del colore acceso del fuoco e nei ricami della pelle si accendevano piccole Rune splendenti che proiettavano sui muri delle frasi che si scomponevano e si ricomponevano in migliaia di combinazioni come mille fiori che si aprono e si chiudono cambiando ogni volta colore; formule magiche che solo la fida Milù sapeva cantare; nella luce abbagliante di quella stanza infatti, sembrava che una fatina minuta stesse cantando alla Luna di quel Natale, un canto così luminoso e così bello che un Cavaliere Alato non potè non udirlo e incantato da quelle canzoni magiche iniziò a volare di due battiti in due battiti, in direzione di un puntino luminoso in cui la Principessa, sotto lo sguardo attento della sua fatina, dormiva.

giovedì 14 dicembre 2017

Il nonno e le stelle



La mia fiaba per oggi.


Il nonno  e le stelle

A Claudette il nonno era sempre sembrato un po’ burbero, anche se pensava che, chiamandosi lui Claude, fra loro dovesse esserci un legame speciale.
Il nonno, serio e di poche parole, spariva per intere giornate in montagna, per tornare a sera con le gambe stanche e il volto arrossato dal sole.
“Dove sei stato tutto il giorno?” voleva sapere Claudette incuriosita.
“A parlare con le stelle” diceva lui allungando le gambe sul tavolino davanti al divano.
Così, quel giorno, si era un po’ preoccupata quando il nonno si era messo a osservarla con aria critica e infine aveva detto: “Ti sei fatta grande. È ora che impari a parlare con le stelle anche tu.”
L’aveva portata nel negozio del suo amico Pierre, dove le aveva comprato dei vestiti adatti, dei calzettoni pesanti e un paio di scarponicini da montagna con una stella alpina ricamata sul fianco.
“Domani ci si sveglia presto!” le aveva detto contento riportandola a casa.
Claudette quasi non aveva chiuso occhio per l’attesa, e quando il nonno l’aveva svegliata molto prima dell’alba, non aveva fiatato e si era vestita di buon grado.
La mamma in cucina le aveva già preparato il latte caldo per la colazione e un piccolo zaino con la borraccia piena d’acqua, il pranzo al sacco, la giacca impermeabile. Sembrava un po’ emozionata anche lei. “Il nonno ha portato anche te, a parlare con le stelle?”
“Certo, piccola. Molte volte. Vedrai, sarà un’esperienza che ricorderai.”
Si incamminarono nel silenzio della notte, solo Claudette e il nonno.
Quando ebbero superato le ultime case del villaggio e si furono addentrati nella foresta, il nonno prese a fischiettare di buonumore.
Claudette non vedeva molto, dato che era ancora buio pesto, ma i passi sicuri del nonno la guidavano sullo stretto sentiero che saliva e saliva. Lì, in montagna, il nonno si muoveva agile e veloce come un ragazzo. Era talmente a suo agio che Claudette si sentiva lei anche perfettamente al sicuro e protetta  anche in mezzo alle ombre fitte proiettate dagli alberi.  
Ben presto, gli alberi si fecero più radi, rivelando le cime delle montagne innevate illuminate dalla luna. Approfittando di una breve pausa, la ragazzina sollevò lo sguardo e improvvisamente capì il significato dell’espressione “parlare con le stelle”.
Sopra di loro e intorno a loro il cielo si spalancava in tutte le direzioni, popolato da fittissime stelle brillanti e così vicine che sembrava di poterle toccare con la mano.
“Manca ancora poco” le disse il nonno beandosi di quello stupore. E iniziò a raccontarle le storie di quelle montagne, le leggende segrete tramandate di bocca in bocca. Claudette non l’aveva mai sentito pronunciare tante parole tutte insieme e proseguiva felice seguendo il sentiero, che terminava in un grande pianoro.
Erano arrivati al culmine di una montagna abbastanza piccola, ma dalla cima pianeggiante coperta dalla bassa erba d’alta quota.
Claudette spalanco le braccia e con la testa rovesciata all’indietro iniziò a girare su se stessa, gli occhi fissi a quel cielo meraviglioso. Le sembrava quasi che il mondo si fosse rovesciato, e che da un momento all’altro avrebbe  potuto cadere in quel cielo immenso e stellato, che già iniziava lentamente a scolorare a est.
Quando fu stanca di quel gioco, sedettero sull’erba a riposare e consumare una sostanziosa colazione. Il nonno la incoraggiò anche a mangiare un bel pezzo di cioccolato, mentre osservavano l’alba e le stelle che sparivano pian piano.
“Allora, piccola Claudette, hai sentito parlare le stelle?”
“Eccome!” rispose la ragazzina, comprendendo per la prima volta che cosa voleva davvero dire sentirsi al settimo cielo.
E non dimenticò mai, mai per tutta la vita, il giorno in cui il nonno le aveva insegnato a parlare con le stelle.





Buonanotte. Buone fiabe.



Bellissima favola che condivido con il permesso di Dora Millaci


Una semplice storia di Natale – favola

Nella piccola cittadina di Higen, si conoscevano tutti e qui, le notizie correvano più veloci della luce.
Nonostante fosse dicembre, l’anziano signor Teobert amava stare seduto all’esterno dell’unico bar del paese e osservava l’andirivieni dei passanti. Faceva finta di niente, sbuffando con la sua enorme pipa ma nulla gli sfuggiva.
Così, quando il piccolo Jakob cadde nelle gelide acque del lago per aiutare il suo amatissimo cane, fu il primo a saperlo. La notizia si sparse a macchia d’olio.
Purtroppo, a causa delle basse temperature, si ammalò.
“Sarà solo un po’ di raffreddore” esclamò un’anziana signora “Quel ragazzo ha una costituzione troppo delicata. E’ sempre pallido, magrolino; mangerà poco”.
“Povera donna sua madre” continuò un’altra che si reggeva a malapena aggrappata a un bastone “Quel disgraziato del marito, l’ha abbandonata quando era incinta e adesso è costretta ad ammazzarsi di lavoro. E’ a servizio dalla signora Lienhard, quella vecchia megera”.
Passarono i giorni e il ragazzo non migliorava, anzi erano comparsi nuovi sintomi.
Il medico del paese lo andò nuovamente a visitare “Qui serve uno specialista” disse alla giovane madre.
“Come faccio!” esclamò disperata portandosi le mani al volto “Sa bene che non ho i soldi per pagarlo. Non me lo posso permettere”.
L’uomo scosse il capo e sospirando, posò una mano sulla spalla della donna “Vedrà che in qualche modo faremo”.
Nel paese Jakob e sua madre, erano molto ben voluti e così, quando al dottore venne in mente di fare una colletta, quasi tutti accolsero l’idea con entusiasmo. Solo una persona la più facoltosa, non la prese bene: La signora Lienhard. Iniziò anzi a lamentarsi con tutti e a gran voce esclamava: “Non bisogna mettere al mondo figli, se non si possono mantenere”. Nel cuore della donna c’era tanta rabbia, quella di chi il destino ha negato qualcosa. Nonostante tutti i suoi soldi, infatti, non era riuscita ad avere un erede.
Il fedele amico, il cane del ragazzo non lasciava mai il suo capezzale. Era sempre accucciato ai suoi piedi. Ogni tanto alzava il muso, scrutava in giro e poi con occhi tristi, si riaccucciava.
Fortunatamente la somma raccolta bastò e fu chiamato il primario di un grande ospedale.
In paese c’era trepidazione per l’esito della visita. Diverse persone si erano sistemate all’esterno dell’abitazione in attesa e il fumo della pipa del signor Higen si elevava tra le teste. Il vociare fu interrotto da un urlo straziante. La notizia raggelò i presenti più del vento freddo. Il ragazzo aveva i giorni contati.
Il Natale era alle porte, ma quell’anno nessuno si sentiva in vena di festeggiamenti. I preparativi non portavano alcuna gioia, perché i cuori delle persone erano gonfi di dolore. Solo la signora Lienhard, completamente indifferente allo strazio della madre di Jakob, la costringeva a lavorare.
“Dobbiamo preparare un bell’albero, più grande di quello dell’anno scorso” sibilava tra i denti soddisfatta del dolore della donna.
Quella sera, nel delirio della febbre alta, l’unico pensiero del ragazzo, era per sua madre “Non posso farti un regalo quest’anno” sussurrò con un filo di voce “Mi dispiace tanto, mamma”.
La donna con le lacrime agli occhi, lo accarezzò “Stai tranquillo e cerca di guarire”. Le parole la soffocavano, tanto era la disperazione.
Era la vigilia di Natale e il piccolo voleva a tutti i costi donare qualcosa a sua madre. Sapeva che non gli restava molto tempo e così, prese carta e penna e scrisse. Scrisse parecchio, come ispirato dal cielo. La stanchezza però prese il sopravvento, tanto che alla fine il foglio gli cadde dalle mani e volò giù dal letto. Quel gesto d’amore, fu l’ultimo che riuscì a compiere. I suoi occhi si chiusero per sempre, mentre il campanile batteva la mezzanotte. I rintocchi più tristi per il paese.
I singhiozzi della madre fecero accorrere il vicinato, che si raccolse attorno a lei, che stringeva forte a sè il corpo inerte del figlio e pregava disperata, chiedendo al Signore una spiegazione.
“Perché mi hai portato via il mio unico figlio?” urlava disperata tra i singhiozzi.
Il parroco del paese si avvicinò e disse: “Non tutto c’è dato da sapere. Il Signore ha progetti che noi non conosciamo”.
Il cane cominciò ad abbaiare così forte e insistentemente che tutti si voltarono e notarono davanti alle zampe dell’animale, un foglio ripiegato.
Un ragazzino lo prese e iniziò a leggere a voce alta.
Nella stanza tutti ammutolirono. Quelle parole sembravano musica, melodia celestiale che tocca l’anima. Erano così belle, dolci e piene di passione. Non sembravano scritte da un bambino, ma da un angelo.
Una strana, irreale atmosfera circondò l’intero paese. I cuori delle persone, anche i più duri, si sciolsero come neve al sole. In quella lettera c’era racchiuso lo spirito del Natale e dell’amore vero.
La signora Lienhard si fece largo tra la gente e accostatasi accanto alla povera madre, la strinse tra le braccia piangendo. “Perdonami per tutto il male che ti ho fatto e per come ti ho trattata. Da oggi cambierà tutto e sarai la figlia che non ho avuto. Verrai a vivere da me”. L’amore del piccolo era riuscito a cambiare anche l’animo più crudele.
Fu così, che le parole di Jakob divennero una delle più belle e commoventi canzoni del Natale; cantata ancora oggi non solo in quella cittadina, ma in tutto il mondo. Il fanciullo dal cuore puro aveva lasciato qualcosa di grandioso, non solo per la madre ma per tutta l’umanità.
Il suo ricordo vivrà in eterno.