Oro vivo
Era
iniziato tutto così, una notte, quando
un’enorme lastra di roccia si era staccata di colpo dalla cima della montagna
ed era precipitata a valle, trascinando con sé quintali di pietre e massi.
L’impatto
era stato così violento da rompere una parete di roccia, facendo entrare per la
prima volta un raggio di luce nella pancia della montagna.
Una
pepita d’oro, incastonata da sempre nella roccia, si era stupita di quel raggio
di luna e ancor di più di quel pezzettino di cielo pieno di stelle.
Poi,
quando il sole del mattino l’aveva investita in pieno, era saltata giù, si era
stiracchiata e si era guardata intorno piena di meraviglia, imitata ben presto
da tante altre pepite d’oro grandi e piccole, intente ad assaporare per la prima volta la luce, il
calore e lo stupore di essere vive.
Quando
il sole, nella sua corsa nel cielo, aveva iniziato a inclinare i suoi raggi,
ritirandoli verso l’apertura, l’oro vivo ne aveva seguito goloso il percorso,
ritrovandosi all'aperto.
“Ah!”
sospirò Pepita sentendo per la prima volta sotto di sé il fresco umido e
profumato dell’erba e del muschio.
Ma
quel sole d’oro continuava a spostarsi e le pepite vive ne seguivano deliziate
la luce, mandando bagliori felici che lì, in cima alle montagne, nessuno vedeva.
No.
Non proprio nessuno.
Un
Uomo Avido che stava perlustrando i monti notò quel luccichio e, posati il
piccone e il setaccio che aveva in spalla, decise di sfruttare l’ultima ora di
luce prima del tramonto per andare a vedere.
Dopotutto,
era un cercatore d’oro. Nientemeno.
La
luce del sole stava andando a nascondersi dietro le cime quando l’Uomo Avido
sbucò all'improvviso proprio là dove l’oro vivo si stava crogiolando senza un
pensiero al mondo.
Pepita
non aveva mai visto un essere così pieno di buio e ne ebbe paura.
“Scappaaa!”
urlò d’istinto senza rivolgersi a nessuno in particolare e, un po’ rotolando e
un po’ rimbalzando, si lasciò scendere lungo il fianco della montagna fino a
quando si arrestò con un tonfo dentro al torrente. Le altre pepite l’avevano seguita e, trovando
piacevole il mormorio dell’acqua fresca intorno a loro, decisero di rimanere
lì, a farsi cullare, mentre il sole si spegneva e si accendevano di nuovo la
luna e le stelle.
Dell’essere
buio non c’era più nessuna traccia e l’oro incorruttibile non temeva il
contatto dell’acqua.
Ma
alle prime luci dell’alba l’Uomo Avido era già sulle sponde del torrente,
imprecando contro il cielo coperto di nuvole che rendeva più difficile la sua
ricerca.
Le
pepite d’oro vivo si aggrapparono sul fondo del torrente e rimasero lì, zitte
zitte, cercando di non farsi notare.
Fu
il sole traditore, a rivelarle. Un raggio dispettoso riuscì a bucare le nuvole
e finì dritto dritto sul quel tratto di torrente, facendo luccicare le pepite
come fari nella notte.
“Scappaaa!”
strillò Pepita mentre il cercatore d’oro si avvicinava a grandi passi. Si
abbandonarono alla corrente, ma l’uomo buio fu più veloce di loro e le
imprigionò tra le maglie arrugginite del suo setaccio. Le raccolse, le chiuse
in sacco di pelle ben legato e, dopo un tempo che parve infinito, le scaraventò
dentro una cassaforte. Era un posto buio
e soffocante, senza nemmeno la freschezza e i suoni gentili dello sgocciolio
d’acqua che le confortavano quando erano nella montagna.
Le
pepite diventarono molto tristi.
Così,
quando l’Uomo Avido le prese e le rovesciò sul tavolo per valutarle, pesarle e
bearsi della propria ricchezza, Pepita non esitò a lanciare ancora una volta il
grido “Scappaaa!” aggiungendo subito dopo “Sparpagliamoci!”
Le
pepite d’oro vivo si tuffarono giù dal tavolo e iniziarono a rotolare i tutte
le direzioni, chi trovando scampo nella fessura sotto la porta, chi imboccando
la finestra, chi tra le crepe delle assi del pavimento. Ben presto si trovarono
tutte fuori, continuando a rotolare tra i prati, sui sentieri, tra le radici
degli alberi.
Pepita
si ritrovò tutta sola, ma continuò ad avanzare, anche se era stanca, per
allontanarsi il più possibile da quell'uomo pieno di buio.
Nel
suo lungo vagare, imparò a conoscere gli esseri umani, le loro preoccupazioni, i
loro affanni e quella luce che ogni tanto trovava la strada del cuore e li
rendeva belli.
E
poi un giorno, chissà come, si ritrovò nei pressi di un monastero. Mani gentili
la raccolsero e la portarono con deferenza in un laboratorio.
Questa
volta Pepita non ebbe voglia di scappare.
Si
piegò dolcemente all'azione del ferro e del fuoco, fino ad assumere la forma di
uno stupendo fiore di loto.
Il
fiore d’oro fu rispettosamente adagiato ai piedi di una statua dello stesso
metallo, che raffigurava una divinità portatrice di luce, speranza e
compassione.
Lì,
cullata dalle preghiere sommesse e dalla luce delle candele votive, Pepita
veniva spesso sfiorata da mani che non osavano toccare direttamente la
divinità, ma supplicavano per un aiuto di cui avevano bisogno.
Con
il tempo, Pepita comprese che, proprio come la fiamma di una singola candela
poteva accenderne altre mille senza per estinguersi o affievolirsi, lo stesso
poteva fare lei con la sua luce incorruttibile di oro vivo. Poteva regalare un
raggio di speranza e comprensione a ogni persona in preghiera. Alcuni lo
lasciavano morire, quel raggio di luce, e dovevano tornare spesso, ma altri
erano così bravi da riuscire a conservare la luce nel cuore e a farla crescere
nel tempo, tanto che Pepita, quando tornavano a pregare, non avrebbe più saputo
dire se fosse lei a donare luce a loro o se fossero loro a illuminare lei.
Ma
non aveva importanza, perché il buio, anche se per gradi, stava arretrando.
Buonanotte. Buone fiabe.